Due anni fa Fatih Birol, capo economista dell’International energy agency, spiegava a gazeta.ru come la Russia avesse bisogno di investire più di 700 miliardi di dollari nel settore petrolifero entro il 2035 o si sarebbe palesato il rischio di assistere a un drastico declino della produzione di greggio. Un monito al quale aggiunse anche la necessità di sgravare il regime fiscale per le imprese e puntare sull’innovazione tecnologica per l’estrazione in aree sempre più remote del Paese – non per questo meno ricche di idrocarburi, anzi al contrario – ma dalle difficili condizioni operative.
A distanza di 24 mesi un report del centro di studi RPI dal titolo “Russian offshore oil & gas fields development: the prospects of equipment and materials market until 2025”; fa il punto sulle attività upstream, con particolare riferimento alla produzione nelle aree del Mar Caspio, Mar Baltico, nella Regione Artica, in quelle più a Est del Paese e nella nuova zona estrattiva nel Mar Pechora. Ambiti di diretta applicazione delle necessità palesate dall’economista Iea.
Il report, che sfrutta dati raccolti dal 2005, prende in considerazione in particolare il mercato potenziale per equipaggiamenti e materiali derivanti dalle attività offshore nell’estrazione di idrocarburi. Tra le maggiori difficoltà sottolineate dal documento, quella degli operatori nella zona dell’Artico (in cui le produzioni sono in rapido aumento) dove la definizione dei confini, quindi delle aree perforabili, è ancora di difficile soluzione.
Nel 2013, comunque, la produzione petrolifera Russa si è attestata a 10,51 milioni di barili al giorno (+1,4% rispetto al 2012) – primo produttore al mondo – secondo i dati del ministero per l’Energia di Mosca.
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