Il presidente americano Joe Biden, fin dal suo insediamento, ha voluto discostarsi dalla precedente amministrazione Trump in tema di politiche climatiche ed energetiche. Appena insediato, circa un anno fa, affermò di voler investire ingenti risorse per un Piano di decarbonizzazione in tutti i settori.
Leggi anche Con Joe Biden gli Usa rientrano nell’Accordo di Parigi sul clima
Il 2035 è definito l’anno dello “Standard neutrale tecnologico” per utility e operatori di rete, anno entro cui bisogna raggiungere un mix energetico a zero emissioni nette di carbonio. Per fare ciò, si devono incrementare rinnovabili e nucleare, ma anche gas e carbone, se dotati di impianti con sistemi Carbon capture and storage (Ccs).
Il costo politico ed economico della transizione
La posizione americana, assunta pubblicamente alla Cop26, di voler uscire con una certa celerità dalle fonti fossili e ridurre le emissioni, ha però un costo sia politico che economico.
Gli Stati Uniti sono diventati energeticamente indipendenti, smettendo di importare petrolio arabo, grazie allo shale oil e allo shale gas. Ma, come si coniuga questa indipendenza energetica e politica con la lotta al cambiamento climatico e l’impegno assunto di raggiungere entro il 2030 un taglio di emissioni carboniche del 50% rispetto ai livelli del 2005, quasi il doppio di quanto promise Obama nel 2015 a Parigi, e del 30% delle emissioni di metano?
La transizione energetica non pare essere a portata di mano poiché, per quanto i costi di eolico e solare continuino a scendere, bisogna investire massicciamente nella riconversione della rete distributiva per poter trasportare l’elettricità, così come negli stoccaggi e nei centri di distribuzione di corrente per le ricariche delle auto elettriche. In tutto ciò, sarà necessario elargire finanziamenti alle centrali fossili. Per quanto riguarda la mobilità, seppur si parli di quattro milioni di veicoli elettrici sulle strade degli Stati Uniti entro il 2030, nel Paese continua a registrarsi una predominante vendita di motori a combustione interna.
Il paradosso dell’ambientalismo
Altro tema fondamentale, è che più gli Stati Uniti investono in energie rinnovabili, più contribuiscono alla ricchezza della Cina, che rimane la maggior produttrice al mondo di pannelli fotovoltaici (quasi i tre quarti dei moduli di tutto il mondo) e delle componenti per assemblarli, infatti l’80% del polisilicio dei pannelli proviene da qui.
Stati Uniti e Unione Europea rappresentano il 30% della domanda e, attualmente, il predominio cinese non ha rivali, grazie al fatto che il governo negli ultimi vent’anni ha sostenuto attraverso sovvenzioni i produttori nazionali del settore fotovoltaico ed eolico, facendoli vendere sottocosto.
Dunque, se gli Stati Uniti vogliono produrre tutta l’energia da rinnovabili entro il 2035, attualmente sono al 40%, si trovano a dover più che raddoppiare l’installazione di nuovi pannelli, come detto a maggior produzione cinese. Questo vale anche per la produzione di turbine eoliche, prodotte dalla Cina per il 45% e per le batterie agli ioni di litio al 69%, necessarie per mobilità elettrica e stoccaggio dell’energia.
Il Piano americano
Il piano americano Build back better act (Bbba), che al suo interno contiene misure in tutti i settori, prevede 555 miliardi di dollari per accelerare sulle fonti rinnovabili, di cui 320 miliardi di incentivi per l’energia pulita, come crediti per gli investimenti nell’industria manifatturiera avanzata e per la generazione di elettricità con turbine eoliche e pannelli solari.
Le contraddizioni della politica green americana: petrolio, gas e Gnl
Ma, dalle stime sulla produzione di petrolio dell’Energy information agency americana (Eia), questa potrebbe salire addirittura di 12,4 milioni di barili al giorno nel 2023, così come la produzione di gas naturale. Lo sviluppo di giacimenti di petrolio e gas è dovuto all’aumento dei prezzi dell’energia che ha inevitabilmente innescato nuovi investimenti in questo settore per aumentare la produzione e calmierare così l’aumento dei carburanti, i cui prezzi hanno raggiunto i livelli più elevati dal 2014.
Oltre a ciò, come riportato da Ispi (Istituto di politica internazionale), proprio nei giorni scorsi, gli Stati Uniti hanno incontrato i diversi produttori mondiali di Gnl a cui è stato chiesto di dirottare le forniture verso l’Europa. Da ottobre ad oggi, ci sono stati 180 milioni di metri cubi in meno al giorno dalla Russia verso l’Europa (-40%), colmati dalle importazioni di Gnl. Ma, se la Russia dovesse interrompere completamente le esportazioni, il Gnl coprirebbe al massimo la metà di ciò che manca. Nel 2021, le esportazioni di Gnl dagli Stati Uniti verso l’estero sono cresciute del 40% rispetto al 2019.
Le misure da mettere in campo entro il 2030
Tra le misure da mettere in campo da qui alla fine del decennio, secondo l’amministrazione Biden, sicuramente c’è l’ammodernamento della rete elettrica nazionale soggetta a condizioni climatiche spesso estreme, su cui stima di investire cento miliardi di dollari per renderla più resiliente.
Il nucleare viene annoverato tra le fonti di energia pulita, ma è sceso al 20% del fabbisogno energetico nazionale e la costruzione di nuove centrali parrebbe escluso, data l’opposizione della popolazione.
Biden vuole inoltre sviluppare il settore dell’eolico offshore con un piano puntuale che mira ad installare 30 GW di impianti entro il 2030, con un impegno finanziario di 12 miliardi di dollari all’anno di investimenti.
Ma è a causa dell’opposizione del senatore democratico conservatore Joe Manchin, che uno dei cardini della politica climatica di Biden, il Cepp (Clean electricity performance program) finalizzato a sostituire le centrali fossili con fotovoltaico, eolico e nucleare, rischia di saltare completamente, o probabilmente è già saltato. Un programma da 150 miliardi di dollari che penalizzerebbe le aziende elettriche che non passano alle fonti rinnovabili.
Come riportato da Ispi, lo scorso 21 dicembre, il pacchetto Build back better act (Bbba) di complessivi 1.750 miliardi di dollari, dopo l’approvazione alla Camera, deve ottenere tutti i 50 voti favorevoli dei senatori democratici. Dunque, la sua opposizione sarebbe sufficiente a bloccare tutte le riforme del pacchetto, tra cui le politiche climatiche di Biden.
Il senatore Manchin parrebbe ora disposto a negoziare e, tra le misure da approvare, potrebbero rientrare anche i crediti d’imposta alle rinnovabili. Ma c’è un altro fattore che potrebbe interferire ulteriormente con il ritardo nell’adozione delle politiche climatiche da parte dell’amministrazione Biden, le elezioni di medio termine.
Per ricevere quotidianamente i nostri aggiornamenti su energia e transizione ecologica, basta iscriversi alla nostra newsletter gratuita
e riproduzione totale o parziale in qualunque formato degli articoli presenti sul sito.