P er “massimizzare l’efficacia” delle “azioni di sostenibilità locali” occorre promuovere una struttura “su vari livelli territoriali e di governance, ognuno con le proprie specifiche”. Così Davide Cassanmagnago, del Coordinamento europeo del Patto dei Sindaci, ieri durante l’evento “La seconda fase del Patto dei Sindaci: una struttura multilivello per la transizione ecologica locale”, organizzato dal Patto dei Sindaci per il clima e l’energia Europa ed Enea, ha dato simbolicamente il via alla seconda fase del Patto dei Sindaci.
Cos’è il Patto dei Sindaci
Il Covenant of Mayors è l’iniziativa della Commissione europea, lanciata nel 2008, che riunisce in una rete permanente le città determinate ad avviare un insieme coordinato di iniziative per la lotta ai cambiamenti climatici.
I sostenitori del Patto sono associazioni di enti locali e regionali, federazioni europee senza scopo di lucro, reti e agenzie locali e regionali che hanno il ruolo di sostenere le amministrazioni locali nel raggiungimento degli obiettivi del Patto. Tra questi: incrementare il numero di firmatari del Covenant e assisterli nella transizione agli obiettivi 2030, fornendo anche strumenti tecnici come quelli messi a disposizione da Enea e Ispra per la realizzazione concreta dei Paesc (Piano d’azione per l’energia sostenibile e il clima – ex Paes).
I coordinatori del Patto possono essere qualsiasi autorità pubblica che si impegna ad offrire orientamenti strategici e supporto finanziario e tecnico ai firmatari, nonché svolga attività di networking tra di essi.
Strumenti a sostegno dei Piani d’azione per l’energia sostenibile
Enea sta sviluppando una piattaforma, che presenterà a breve, per standardizzare il metodo di calcolo dei risultati, anche nelle aggregazioni tra i Comuni, e fornire uno strumento che consenta loro di gestire e monitorare i piani con maggiore autonomia.
La piattaforma, ha spiegato Maurizio Matera, promette di superare le criticità riscontrate dai Comuni di medie e piccole dimensioni nel reperire e nel monitorare i dati sui consumi privati, nel definire l’Ibe (Inventario base delle emissioni), nel disporre di competenze specifiche e di risorse da dedicare a tempo pieno. Così da raggiungere una maggiore percentuale del rapporto tra Paesc presentati e Paesc monitorati, che attualmente si attesta solamente al 27%.
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Spesso i Comuni non hanno un Inventario di base delle emissioni (Ibe), perché è un’attività complessa che richiede competenze specifiche, si rivolgono a soggetti esterni per redigerne uno. Ciò comporta che i dati prodotti sono disomogenei: nel 2018 il 73% dei Piani presentati non aveva alcuna forma di monitoraggio e aggiornamento.
La metodologia vincente per un piano di adattamento a livello locale
Per redigere un piano di adattamento a livello locale, ha spiegato Monica Pantaleoni, dipartimento Valutazione degli impatti emissivi di Ispra, bisogna definire le caratteristiche dei mutamenti su scala locale, stimare gli effetti che tali cambiamenti hanno sulla popolazione, sulle infrastrutture e sulla biodiversità per poi individuare e organizzare in modo coerente le politiche per far fronte a questi cambiamenti.
Per la redazione dei piani di adattamento sono disponibili diverse metodologie, ma quella di riferimento in ambito Paesc è la “Urban adaptation support tool” sviluppata e disponibile su “Climate adapt” sul sito dell’Agenzia europea dell’ambiente.
Questa metodologia si basa su sei step principali, che vanno dalla creazione del background alla valutazione dei rischi, identificazione delle azioni, implementazione e all’ultima fase di monitoraggio.
Affinché un piano di adattamento a livello locale sia efficiente deve contenere un’analisi conoscitiva dei mutamenti in atto su scala locale in modo approfondito. Ecco perché è fondamentale concentrarsi sullo step della valutazione dei rischi e della vulnerabilità. Si verifica un rischio solo se in un certo luogo è presente una fonte di pericolo, la vulnerabilità invece attiene alla propensione di un sistema ad essere alterato. Quindi, vanno identificati i settori vulnerabili, che possono essere ad esempio l’uso del suolo, e si conduce un’analisi degli impatti a livello di città o di area, che poi condurrà alla scelta delle azioni adattamento.
Una metodologia che possa definirsi tale, ha concluso Pantaleoni, “deve essere facile da implementare, permettere di confrontare differenti realtà, fornire risultati utili e rendere possibile la comparazione tra approccio quantitativo e qualitativo”. Più è complesso il modello di riferimento, ha proseguito, “più complessa sarà la valutazione, ma certamente più aderente alla realtà”. Non bisogna escludere i fattori nell’analisi e vanno raccolti dati di input di qualità “al fine di creare indicatori adeguati, individuando approcci adatti al contesto locale e consultando anche degli esperti locali se necessario”.
Le azioni di adattamento
Le azioni di adattamento possono essere raggruppate in tre categorie principali:
- grigie o strutturali, qui il livello di soluzioni è tecnologico o ingegneristico;
- verdi o ecosistemiche, azioni che contribuiscono alla resilienza degli ecosistemi;
- di adattamento soft, che consistono in approcci politici che si concentrano sui modelli di governance.
L’attivismo climatico
Eero Ailio, adviser on energy transition and local governance, Commissione europea DG Energia, ha parlato degli ingredienti fondamentali per proseguire lungo la strada della transizione energetica. Tra questi: una strategia top down a livello legislativo e una bottom up basata su un framework di sostegno come il Patto dei Sindaci, senza mai dimenticare cosa il singolo cittadino possa fare per il clima.
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Il Patto climatico europeo vuole creare un ecosistema che crei una interconnessione tra tutti gli attori, quali i cittadini, le imprese e le città. I modi per agire sono diversi: diventare un ambasciatore del Patto e assumersi un impegno e organizzare discussioni e conferenze. Il Patto dei Sindaci in questo senso costituisce un partner fondamentale per costituire una partnership tra città e cittadini, ma anche con le imprese e le Ong.
Tra gli strumenti per l’azione climatica c’è il Parlamento dei Pari all’interno del quale piccoli gruppi possono strutturare dei dibattiti e usufruire del materiale informativo disponibile. I risultati raggiunti da questo Parlamento andranno ad alimentare la Conferenza sul futuro dell’Europa e la pianificazione delle attività del Patto.
La governance multilivello italiana
Mara Cossu, coordinatrice dell’area sviluppo sostenibile della direzione generale per la Crescita sostenibile e Qualità dello sviluppo del Mite, ha affermato: “L’Italia ha fatto un percorso particolare, scegliendo di spingere e promuovere l’azione di strategie territoriali per lo sviluppo sostenibile” attraverso “strutture interdipartimentali che garantissero la gestione della complessità delle tematiche sullo sviluppo sostenibile”.
Pertanto, ha aggiunto, “abbiamo chiesto di creare cabine di regia che potessero aiutare l’azione dei territori, in secondo luogo di coinvolgere tutti gli attori non statali. Esistono una serie di esperienze regionali e metropolitane di protocolli, attraverso i quali gli attori non statali si impegnano rispetto ai diversi obiettivi di sviluppo sostenibile. Si sono dunque creati degli ecosistemi in grado di creare condizioni che vadano incontro alle esigenze del Patto climatico e dei Sindaci”.
Come espressione della governance multilivello, alla tavola rotonda finale sono intervenuti Roberto Ciambetti, Comitato europeo delle regioni e ambasciatore per l’Italia del Patto dei Sindaci; Carlo Salvemini, sindaco di Lecce e responsabile energia di Anci; Gabriele Cosentini, dip. Ricerca, innovazione, energia della Regione Emilia Romagna; Benedetta Brighenti, presidente Aess e Renael; Alessandra Filippi, assessore deleghe ambiente, agricoltura, mobilità sostenibile del Comune di Modena.
Tutti concordi sul fatto che sugli obiettivi di sostenibilità si debba accelerare con iniziative incisive.
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