Plasticarifiuti E1523962579388Un enzima mutante che “mangia” i rifiuti in plastica. E’ la scoperta realizzata dai ricercatori del National Renewable Energy Laboratory (NREL) coordinata da  biologo strutturale John McGeehan dell’Università di Portsmouth (Regno Unito). Il risultato è arrivato in maniera accidentale durante gli esperimenti sulla struttura cristallina del PETase, l’enzima che aiuta il microbo giapponese Ideonella sakaiensis a distruggere le plastiche.

La prima scoperta in Giappone

 Nel 2016, infatti, un team di studiosi giapponesi aveva scoperto nel terreno di una fabbrica per il riciclo di materie prime il microbo Ideonella sakaiensis, che si era adattato a mangiare la plastica presente nel suo habitat e aveva sviluppato un enzima specifico per questa finalità. 

Un passo in più

Ora la nuova ricerca ha fatto un passo in più. E’ stato infatti creato accidentalmente un enzima mutante che ha performance migliori rispetto a quelli dei batteri naturali. Una scoperta che potrebbe aprire la strada a ulteriori miglioramenti e alla creazione di organismi in laboratorio sempre più efficienti da usare nello smaltimento dei rifiuti in plastica. Questa scoperta inattesa suggerisce che c’è spazio per migliorare ulteriormente questi enzimi, avvicinandoci a una soluzione di riciclaggio per la montagna in continua crescita di rifiuti in plastica ”, spiega sul sito Science Alert John McGeehan

L’uso dei raggi X

Gli scienziati hanno sfruttato i raggi per creare un modello 3D ad altissima risoluzione dell’enzima, il tutto con l’obiettivo di valutarne l’efficienza. “Essere in grado di vedere il funzionamento interno di questo catalizzatore biologico ci ha fornito i parametri per progettare un enzima più veloce ed efficiente“, spiega McGeehan.

L’enzima mutato

Il team ha ipotizzato il processo evolutivo legato all’enzima in presenza di PET ed è riuscito a mutare il PETase rendendolo simile a un altro enzima, il cutinase. Dai dati raccolti è emerso non solo che le prestazioni potevano migliorare, ma anche che questo miglioramento poteva portare  a un’efficienza 20 volte maggiore rispetto a quella iniziale. 


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