Le fonti di dispersione del metano nell’aria sono molteplici. Non solo grandi centri di diffusione ma anche piccole perdite diffuse. E’ quanto segnala un nuovo studio a cura dell’Environmental Defense Fund (EDF), pubblicato sulla rivista Atmospheric Chemistry and Physics. Da qui emerge come delle circa 15 milioni di tonnellate di metano provenienti annualmente dalle attività petrolifere e del gas onshore negli Stati Uniti continentali, il 70% proviene da fonti più piccole e disperse, che emettono meno di 100 chilogrammi di metano all’ora. Infine il 30% delle emissioni deriva da siti che rilasciano meno di 10 chilogrammi all’ora.
“Mentre l’attenzione è rivolta ai grandi “super-emettitori”, la ricerca dimostra che la maggior parte dell’inquinamento da metano proviene da fonti piccole e disperse, molte delle quali non vengono rilevate dalle principali tecnologie di monitoraggio satellitare.” commenta in una nota Flavia Sollazzo, senior director EU Energy Transition di EDF e portavoce per l’Italia. “È qui che nuovi strumenti come MethaneSAT, il satellite messo a punto da EDF, sono essenziali, in quanto forniscono un quadro completo delle emissioni. Affinché l’UE sia efficace nel ridurre la sua impronta di metano, i quadri di monitoraggio, rendicontazione e verifica devono considerare tutte le emissioni. In caso contrario, rischiamo di sottostimare l’inquinamento da metano e di perdere opportunità di riduzione significative. Dati migliori sul metano rafforzeranno anche la diplomazia energetica dell’UE. Con un monitoraggio migliore, anche l’Italia può impegnarsi con i fornitori in modo più informato, collaborando più efficacemente per ridurre le emissioni della sua catena di approvvigionamento”.
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Altro dato che fa riflettere rispetto l’economia del comparto è come siano spesso pozzi a bassa produttività i più inquinanti.
Difatti del 70% delle emissioni totali di metano del settore petrolifero e del gas su scala regionale prodotti dai siti estrattivi, dal 67% al 90% delle emissioni proviene da pozzi a bassa produttività. Questi pozzi contribuiscono solo al 10% della produzione totale di petrolio e gas (in base ai dati più recenti del 2021).
Il tasso di perdita negli USA continentali è del 2,4% rispetto alla produzione totale di gas naturale. Un dato che è più del doppio rispetto quanto segnalato nell’Inventario dei gas serra dell’EPA per i sistemi di gas naturale e petrolio nel 2021.
Uno schema che potrebbe ripetersi anche in altre aree di produzione petrolifera e gas, come allarmano i ricercatori e che deve far riflettere sulla scelta e le implementazione di politiche di contenimento.
Le fonti più piccole analisi dell’impatto
I ricercatori hanno analizzato oltre 1.900 tassi di emissione a livello di impianto, raccolti attraverso misurazioni dettagliate da 16 studi precedenti.
Il nuovo studio ha analizzato 673.940 strutture totali, tra cui:
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541.970 siti di pozzi a bassa produttività,
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121.824 siti di pozzi non a bassa produttività,
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4.431 stazioni di compressione per raccolta e potenziamento,
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2.093 stazioni di compressione per trasmissione e stoccaggio,
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919 impianti di lavorazione,
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3.153 focolai di combustione rilevati dal database satellitare VIIRS.
La stragrande maggioranza di queste strutture emette meno di 100 kg di metano all’ora, ma nel loro insieme contribuiscono al 70% delle emissioni totali di metano. Per una gestione efficace delle emissioni di metano, è essenziale tenere conto di queste fonti.
Scenari per aree sulle piccole fonti emissione
Nella maggior parte delle nove principali aree di produzione petrolifera e di gas negli Stati Uniti, la quota di emissioni provenienti da strutture con emissioni inferiori ai 100 kg all’ora è ancora più alta rispetto alla media nazionale del 70%.
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Nel Permian, Appalachian e Eagle Ford, questa percentuale sale a circa 80%.
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Nel San Joaquin Basin, dominato dalla produzione petrolifera, si avvicina al 90%.
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I bacini di Anadarko e Bakken mostrano percentuali inferiori alla media nazionale, ma le strutture con basse emissioni rappresentano comunque circa il 60% delle emissioni totali.
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