Tra i tanti problemi causati dal cambiamento climatico c’è anche quello delle migrazioni. Sempre più persone sono infatti costrette a lasciare zone del pianeta messe in ginocchio da eventi meteorologici estremi, che rendono questi territori non compatibili con l’insediamento umano. In particolare “senza misure urgenti per contenere i cambiamenti climatici – spiega un’analisi del Club di Roma – entro il 2050 i governi mondiali si troveranno a dover far fronte a un miliardo di migranti climatici”. La ricerca, presentata nel corso del 15esimo Forum internazionale dell’informazione ambientale organizzato da Greenaccord Onlus e dalla Regione Toscana a San Miniato (PI) (7-9 marzo), ha declinato il tema della sostenibilità da diversi punti di vista.
Un fenomeno in crescita
“Questi eventi – sottolinea in una nota Alfonso Cauteruccio, presidente dell’associazione Greenaccord – dagli anni 80 ad oggi sono triplicati. Ma inondazioni, tempeste, tifoni o, al contrario, siccità e ondate di calore estreme non sono solo problemi climatici. Hanno infatti un impatto sociale enorme sugli esseri umani. E ciò li trasformerà in un’emergenza mondiale che produrrà conflitti, carestie, malattie. Per questo occorre, condividendo quanto affermato dal Club di Roma, affrontare la realtà dei cambiamenti climatici come un rischio esistenziale immediato”.
Un approccio innovativo
Per cercare di gestire in modo adeguato il fenomeno delle migrazioni legate al riscaldamento globale, si legge in un articolo sul sito del World Economic Forum, bisogna adottare un approccio “nuovo”. Il Global Compact for Migration, infatti ha invitato la comunità internazionale potenziare la condivisione di informazioni per mappare e prevedere i movimenti migratori legati al clima con l’obiettivo di gestirli in maniera più efficace. Inoltre uno dei primi step da compiere è quello di coinvolgere maggiormente le comunità colpite dal fenomeno diffondendo conoscenza e consapevolezza a livello delle istituzioni politiche.
Sette punti chiave
Sette, secondo il WEF, sono i principali punti chiave su cui lavorare: decarbonizzare dell’economia globale; non adottare un approccio rigido e stereotipato alla questione; inserire la riflessione nell’ottica globale del fenomeno della mobilità delle persone; mettere in atto progetti in loco per ridurre il fenomeno; adottare uno sguardo locale e da lì ambliare gradualmente la prospettiva; creare opportunità per rendere le persone protagoniste attive nella definizione del loro futuro; non adottare un approccio sensazionalistico alla questione ma affidarsi a metodi scientifici e rigorosi.
Fukushima, per Greenpeace i livelli di radiazione sono ancora alti
Il binomio tra condizioni ambientali avverse e la necessità di spostamenti della popolazione locale potrebbe, a livello potenziale, avere dei punti di tangenza anche con la situazione di Fukushima. Secondo una nuova indagine di Greenpeace , “Sul fronte dell’incidente nucleare di Fukushima: lavoratori e bambini“, diffusa a pochi giorni dall’anniversario dell’incidente nucleare avvenuto l’11 marzo del 2011 nella città giapponese, il governo starebbe “deliberatamente ingannando gli organismi e gli esperti delle Nazioni Unite che si occupano di violazioni dei diritti umani”. Secondo l’associazione “i livelli di radiazioni sia nelle zone di esclusione che nelle aree aperte, anche dopo gli enormi sforzi di decontaminazione, sono ancora alti “.
Rischi per addetti alle bonifiche
“Nelle aree in cui operano alcuni di questi addetti alle bonifiche, i livelli di radiazione rilevati sarebbero considerati un’emergenza se fossero registrati all’interno di un impianto nucleare”, afferma in una nota Shaun Burnie, esperto sul nucleare di Greenpeace Germania – “questi lavoratori non hanno praticamente ricevuto nessuna formazione sulla tutela da radiazioni. Poco protetti e mal pagati, sono esposti ad alti livelli di radiazioni e se denunciano qual è la situazione rischiano di perdere il posto di lavoro. I relatori speciali delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno assolutamente ragione nel mettere in guardia il governo giapponese su questi rischi e violazioni”.
A Namie e Iitate livelli di radiazione da 5 a 100 volte più alti del limite consentito
Lo studio di Greenpeace ha rilevato livelli di radiazione “nella zona di esclusione e nelle aree di evacuazione di Namie e Iitate che rappresentano un rischio significativo per i cittadini, bambini inclusi. I livelli sono da cinque a oltre cento volte più alti del limite massimo raccomandato a livello internazionale e rimarranno tali per molti decenni e nel prossimo secolo”.
Lavorare 8 ore nella zona corrisponde a più di 100 radiografie al torace
Per quanto riguarda invece la zona di esclusione di Obori in Namie, i livelli medi registrati di irradiazione si sono attestati a 4,0 μSv all’ora. Per capire la pericolosità del dato basti pensare che, se un operatore lavorasse lì per otto ore al giorno durante un intero anno potrebbe ricevere una dose equivalente di radiiazioni pari a più di cento radiografie del torace.
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