Quanta paura (ci) fa l’olio di palma? Tanta se si pensa che siamo disposti a cambiare le nostre abitudini alimentari così rapidamente, debellando dai prodotti da forno ciò che reputiamo dannoso per il nostro organismo. Quella che per molti è diventata una missione quotidiana, però, sembra essere ostacolata da più antagonisti. In fondo, non siamo noi a decidere quello che mangiamo…
Una sostituzione salutare (?)
Negli ultimi venti anni il consumo di olio di palma è cresciuto molto in Italia, facendone un elemento delle nostre diete. La sua coltivazione massiccia, in Africa e Indonesia prevalentemente, è uno degli elementi additati come causa della riduzione dello spazio vitale dei primati, soprattutto degli oranghi. Se da un lato l’olio di palma è accusato di essere l’origine dei mali animali e umani, dall’altro vengono promosse campagne pubblicitarie informative in sua difesa, come quella di settembre dell’Unione italiana per l’olio di palma sostenibile (associazione nata a ottobre del 2015 di cui fanno parte Ferrero, Nestlè Italia e Unilever).
Eppure l’olio di palma è alla base dell’alimentazione di molti paesi africani, come l’Angola: qui, però, non viene trattato (raffinato in termini tecnici) ma adoperato al naturale. Per impiegarlo nei prodotti da forno che acquistiamo, invece, viene “neutralizzato”: scompare la colorazione (comprereste biscotti rossi?), il sapore e l’odore. E questo ne compromette certamente la salubrità (come accade per il grano).
Non potendo eliminare gli olii dalla nostra dieta, una delle più importanti fonti di energia, dobbiamo sostituire l’olio di palma con un altro grasso, anche se rimpiazzare una commodity così conveniente (a pari ettari di terra coltivata frutta cinque volte di più), richiede di rimanere nella stessa fascia di prezzo. E trovare un altro elemento che consenta di rispettare il compromesso tra coltivazione sostenibile, salute e convenienza non è facile.
“La sostituzione non fa il bene del consumatore e, nemmeno, quello dei produttori agricoli – spiega Michele Antonio Fino, Prof. di Diritto dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (UNISG) – Optare per un altro olio senza rispondere a determinate esigenze tecniche o istanze di qualità determina uno stress sui territori agricoli, talvolta, irreparabile”. Infatti, come evidenzia Stefano Savi, Direttore della comunicazione di RSPO ,“l’olio di palma ad oggi è l’olio vegetale che ha la maggiore resa a parità di uso di terra”.
Per questo, è utile ragionare in termini di alimentazione e non di cibo “buono” o “cattivo”: “Dobbiamo rivedere le nostre diete ponendoci l’obiettivo di bilanciare l’assunzione di grassi e, soprattutto, degli acidi grassi saturi”, continua Fino. E questi sono maggiormente presenti nell’olio di cocco e cacao, ma chi sarebbe disposto a rinunciare facilmente a una barretta di cioccolato amaro?
Il libro che consiglia i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana (LARN), illustra Ferdinando Giannone, nutrizionista presso l’Azienda sanitaria Sant’Orsola Malpighi dell’Università di Bologna, stabilisce di consumare al massimo 23 gr di grassi saturi al giorno (presenti in tutti gli olii), una determinata quantità di omega 6 (contenuto soprattutto nell’olio di mais e girasole) rispetto agli omega 3 e di limitare l’assunzione dei grassi trans, i quali si formano se non si completa il processo di idrogenazione degli oli vegetali (come accade nella produzione di margarina, il cui uso è stato bandito negli USA).
Chi cerca di seguire una dieta salutare, optando per biscotti integrali ad esempio, talvolta non tiene conto delle caratteristiche tecnologie degli olii: “Ci sono molti antiossidanti nelle farine integrali che sono in massima parte idrosolubili e non ci aiutano a proteggere i grassi dall’ossidazione – specifica Fani – Se in un frollino integrale uso grasso poco stabile rispetto l’ossidazione non riesco a ottenere una maggiore stabilità di quel grasso vegetale e non ho comunque evitato il problema di irrancidimento e la formazione dei sottoprodotti da irrancidimento che derivano da produzione grassi”.
Le etichette nutrizionali “smemorate”
È buona norma leggere le etichette nutrizionali prima di infilare un prodotto nel carrello. Quando si fa la spesa, molte volte la fretta è traditrice. Ma la distrazione non è l’unica a trarci in inganno. “Non aderiamo allo spirito della legislazione europea: il regolamento 1169 in vigore dal 2011 ci dà il diritto di conoscere l’origine degli alimenti e la provenienza delle specie vegetali adoperate”, evidenzia Michele Antonio Fino, Prof. di Diritto dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (UNISG). Però, sulle etichette è presente il nome dell’olio adoperato, ma non il trattamento subito, passaggio che in realtà ne determina la pericolosità per la salute: “Mentre l’olio di palma viene adoperato con un processo di raffinazione molto semplice – continua Fino – che prevede di ricavare la parte solida giocando sulla temperatura, gli olii che sono allo stato liquido a temperatura ambiente richiedono di essere interesterificati (ovvero richiedono che gli acidi grassi siano riposizionati sulla glicerina in modo da ridurre la percentuale di acidi grassi trans ndr) per entrare in certe produzioni”. Il processo può essere fatto in due modi: chimico o enzimatico. Se si opta per quello chimico, più comune perché probabilmente meno costoso, i risultati di questa combinazione restano sconosciuti.
Olio di palma e pastiglie dei freni
Le pastiglie dei freni stanno all’automobile come l’olio di palma sta ai prodotti da forno: costano poco, determinano ampi margini di profitto e incidono nettamente sulle prestazioni finali del prodotto. In altri termini, la convenienza dell’olio di palma influenza l’intera catena produttiva dolciaria, nonostante la sua importanza quasi secondaria, da un punto di vista economico, nel panorama dell’industria dei prodotti da forno: “Complessivamente questa ha un fatturato di quasi 7 mld di euro dei quali 3,7 mld vengono impiegati per l’acquisto di materie prime e circa il 10%, pari a 112 mln di euro, sono destinati all’olio di palma – spiega Carmine Garcia, Prof. Economia Aziendale Università Scienze gastronomiche –È ormai un componente critico dal punto di vista economico: ha determinato l’andamento dei processi produttivi e la sua sostituzione implica investimenti nel lungo periodo e cambiamento delle caratteristiche organolettiche dei prodotti”. E si prevede che l’attività di ricerca per la sostituzione di quest’olio, compresa quella sul packaging, determinerà un aumento degli investimenti per le imprese da 40 a 120 mln di euro, che nel 2018 saranno 280-360 mln di euro.
E il consumatore, che è ipersensibile rispetto al problema dell’olio di palma, ha già scatenato il bandwagon effect, come si dice in gergo: una reazione a catena effetto del passaparola la quale, probabilmente, porterà alla scomparsa dell’olio di palma nei nostri prodotti. “È appurato che, usato in un certo modo e consumato in una determinata quantità, non crea problemi per la salute – continua Garcia – Il punto è che alcune aziende hanno colto la sensibilità del consumatore e hanno iniziato a comunicargli l’importanza dell’assenza dell’olio di palma nei propri prodotti. Questo accentuerà ancora di più la sua impressionabilità e costringerà le altre imprese a seguire lo stesso comportamento”.
Leggi anche Olio di palma, sì o no? Meglio ascoltare la nonna
Per ricevere quotidianamente i nostri aggiornamenti su energia e transizione ecologica, basta iscriversi alla nostra newsletter gratuita
e riproduzione totale o parziale in qualunque formato degli articoli presenti sul sito.