A distanza di 26 anni dalla legge 257/92 sulla messa al bando dell’amianto, questo materiale, pericoloso per la salute e per l’ambiente, continua ad essere “ampiamente diffuso nel nostro Paese“. Secondo il dossier “Liberi dell’amianto? I ritardi dei Piani regionali, delle bonifiche e delle alternative alle discariche”, realizzato da Legambiente a tre anni dall’ultimo report (2015), ad oggi sono state censite 370mila strutture dove è presente questa fibra killer. Di queste 50.744 sono edifici pubblici, 214.469 edifici privati e 20.296 siti industriali. Numeri che, sottolinea l’associazione, mostrano il grave ritardo dei piani regionali sull’amianto (PRA) e delle attività di censimento e mappatura. Insieme ad Andrea Minutolo, coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente, abbiamo approfondito questi temi.
Quali sono gli elementi più rilevanti emersi dall’edizione 2018 del dossier?
Sono passati 26 anni dalla legge del 1992 che ha messo al bando l’amianto, ma ancora oggi i dati sulla presenza di questo minerale sul territorio italiano non sono certi e omogenei da regione a regione. Questo dimostra il forte ritardo con cui si sta gestendo la questione. Questo materiale, a causa l’utilizzo che ne è stato fatto per 50 – 60 anni nel secolo scorso, si ritrova in tantissimi siti: strutture pubbliche e private tubazioni etc. Le stime parlano di milioni di metri cubi, migliaia di km quadrati di coperture che, una volta individuati e rimossi, vanno poi posti in discarica. Tuttavia nel nostro Paese, in tutti questi anni, non si è mai data la priorità alla realizzazione di un’impiantistica di smaltimento a livello territoriale. Oggi quelle poche realtà che rimuovono l’amianto devono sostenere costi esorbitanti. Questo perché magari è necessario trasportare l’amianto fuori dall’Italia fino alla Germania, dove normalmente arriva circa un terzo del quantitativo rimosso in Italia. Abbiamo quindi una situazione in cui non si ha un quadro chiaro delle quantità di amianto; inoltre non abbiamo previsto un’impiantistica adeguata per lo smaltimento, elemento che avrebbe consentito invece un abbassamento dei costi.
A livello geografico ci sono delle zone dove l’amianto è più presente?
La presenza di amianto è omogeneamente distribuita in tutto il territorio. Non c’è una regione che non abbia il problema amianto. Tendenzialmente a causa della diffusione avuta nel corso di 50-60 anni, questo materiale è riuscito a permeare il tessuto urbano di tutta la penisola, dalla Sicilia al Friuli fino al Veneto. In realtà adesso le regioni che hanno fatto una migliore mappatura hanno dati più precisi, ma questo non vuol dire che siano quelle che hanno la maggiore problematica. Sicuramente il Piemonte è una regione simbolo della presenza di amianto, perché il territorio del Casalese (Casale Monferrato), uno dei poli che estraeva e produceva amianto in Italia, è stato quello che avuto impatti più rilevanti dal punto di vista sanitario.
Per quanto riguarda le mappature e i censimenti quali sono le maggiori criticità?
Le Regioni insieme alle ARPA non hanno ancora sviluppato in modo capillare mappature e censimenti. Non c’è un quadro chiaro che ci dice quanto amianto c’è e dove si trova. E questo nonostante a livello tecnologico gli strumenti a disposizione per perseguire quest’obiettivo siano molto migliorati. Penso ad esempio all’uso dei droni in Piemonte. Il problema è che si rimane a una fase preliminare. Va fatta, infatti, una verifica puntuale sul posto, ma spesso le Regioni hanno lasciato all’autocertificazione, all’autodenuncia dei cittadini il compito di segnalare la presenza di amianto negli edifici. E’ evidente che i cittadini non hanno delle conoscenze per poter rilevare in modo adeguato la presenza di amianto. Così ancora oggi ci sono scuole ed edifici pubblici dove questo materiale è presente. Attualmente sono circa 370 mila le strutture censite, e si tratta di stime al ribasso.
Dal punto di vista dell’impatto sanitario cosa è emerso dal dossier?
Gli studi che sono portati avanti con molta cura dall’INAIL hanno stimato, ad esempio, che, nel corso di questi 20 anni, dal 93 al 2015, sono oltre 21 mila i casi di mesotelioma maligno. Questa patologia è direttamente correlabile all’esposizione all’amianto. Mediamente causa tra 4 e 6 mila morti da amianto ogni anno in Italia. Ovviamente questi dati non prendono in considerazione le morti avvenute prima del 92, anno in cui è stato messo al bando questo minerale.
Quello che fa più paura è che i dati continuano a crescere. Siccome è necessario un certo lasso di tempo tra il momento dell’esposizione all’amianto e la manifestazione della patologia tumorale (si parla di 40 – 50 anni), é evidente che il picco di mortalità e di patologie non è stato ancora raggiunto. Lo raggiungeremo probabilmente tra il 2020 e il 2030.
Questa situazione deriva anche dal fatto che, nonostante l’amianto sia stato messo al bando, permane ancora sul territorio. A ciò si aggiunge la scarsità di informazioni sul suo stato di conservazione, sulla sua precisa localizzazione. Ci sono ancora milioni di persone che sono quotidianamente a contatto con strutture che potenzialmente potrebbero innescare tra 40 – 50 anni la formazione di un tumore maligno. Questa è la situazione drammatica che segnaliamo. Più ritardiamo nel mettere in atto interventi efficaci, più le strutture contaminate, che fino ad ora non rilasciano fibre, possono poi diventare pericolose a causa dell’esposizione ad agenti atmosferici nel corso degli anni. Il tutto con un impatto rilevante da un punto di vista sanitario.
Sul fronte dello smaltimento qual è la situazione?
Abbiamo un forte ritardo per quanto riguarda l’impiantistica. In particolare con la nostra analisi abbiamo riscontrato che discariche specifiche per l’amianto sono presenti solo in 8 regioni e sono impianti che hanno delle volumetrie esigue. In totale sono presenti sul territorio 18 impianti (erano 24 fino a pochi anni fa). In Sardegna e Piemonte ce ne sono 4 (di cui uno per le sole attività legate al SIN di Casale Monferrato in Piemonte), 3 in Lombardia e 2 in Basilicata ed Emilia Romagna. In Friuli Venezia Giulia, Puglia e nella Provincia Autonoma di Bolzano abbiamo invece un solo impianto.
Il problema è che, anche se rimuovessimo tutto l’amianto con una bacchetta magica, non sapremmo dove andarlo a smaltire. Attualmente il 98% di quello che esportiamo va in Germania. I tedeschi, però, hanno iniziato a limitare molto l’accesso di amianto proveniente da altri Paesi, perché ormai sono stati raggiunti dei livelli di saturazione. Delle 470 mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto rimosse e smaltite, 230 mila sono andate a finire in discariche italiane e un terzo, circa 145 mila tonnellate, sono state inviate in Germania.
Se dovessimo raddoppiare questa quantità, magari con un incentivazione per la rimozione dell’amianto, non sapremmo poi dove smaltirlo. Questo è un problema non indifferente. Spesso si è cercato, quindi, di ritardare i tempi, proprio per questo motivo. Le stime parlano di 40 milioni di tonnellate di amianto totali presenti nel Paese. Ci vorrebbero 40 anni per arrivare a smaltirle completamente. Ma non abbiamo certamente impianti che possono contenere queste quantità, quindi è evidente che si tratta di un cane che si morde la coda.
L’informazione su questi temi per i cittadini e per gli operatori del settore è adeguata?
Bisogna distinguere due aspetti: l’informazione rivolta a chi lavora nel settore per verificare la presenza di amianto (imprese che fanno bonifiche, personale delle Asl, agenzie regionali etc.) e l’informazione rivolta ai cittadini. Per quanto riguarda il primo ambito qualcosa rispetto al passato è stato fatto: sono stati organizzati corsi di aggiornamento e di informazione mirati. Per quanto riguarda, invece, l’informazione rivolta ai cittadini le iniziative sono ancora molto carenti. Basti pensare che la legge del 92 stabiliva che ogni regione si dotasse di uno sportello amianto, un punto di riferimento per orientare i cittadini, ma, a 26 anni di distanza, tendenzialmente nessuna regione ha introdotto un centro di questo tipo. Anche noi, come associazione, dobbiamo girare per mille uffici per trovare un riferimento che parzialmente possa darci qualche risposta.
A livello di informazione bisognerebbe fare qualcosa di più. Nonostante qualche regione abbia promosso qualche iniziativa informativa, manca una cultura sul tema. Il problema dell’amianto non è stato una priorità del nostro Paese e i cittadini non sanno a chi rivolgersi. I più furbi provvedono a rimuovere da soli questo materiale e a buttarlo sotto i ponti o a bordo strada. In questo modo espongono loro stessi a un rischio sanitario e inquinano l’ambiente provocando un danno alla collettività.
Quali sono le possibili vie da percorrere per gestire una situazione di questo tipo?
Sicuramente un aspetto importante è applicare quello che la legge prevedeva. Ciò vuol dire finire il censimento e la mappatura. Inoltre bisognerebbe sviluppare due temi: uno è quello dell’incentivazione dello smaltimento, l’altro è il riutilizzo dell’amianto dopo averlo sottoposto a un processo di intertizzazione.
Per quanto riguarda l’incentivazione dello smaltimento c’è stata una campagna che ha funzionato bene qualche anno fa. Prevedeva la sostituzione dei tetti con pannelli fotovoltaici e abbinava la rimozione dell’amianto alla diffusione dell’energia da rinnovabili. Questi incentivi hanno funzionato portando a grandi quantitativi rimossi, ma sono stati eliminati. Noi ci battiamo affinché vengano ripristinati.
L’altro tema chiave è il riutilizzo dell’amianto dopo averlo sottoposto a processi di inertizzazione ad alte temperature con processi chimici o fisici. Questo materiale reso inerte, e quindi non più nocivo, può essere impiegato nella realizzazione di cemento per strade e costruzioni. Le tecniche usate per questo tipo di processi sono conosciute a livello internazionale, ma sono ancora brevetti, mancano i prototipi. Non c’è, però, l’attenzione per sviluppare questi brevetti e renderli operativi su scala industriale.
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