C’è l’espressione pittorica di Pablo Echaurren che si pone come contraltare di un sistema politico e di pensiero e la street art di Banksy che porta a riflettere su temi storico-politici. C’è la musica degli U2 che con la voce di Bono Vox in Silver and Gold si scaglia contro la politica della segregazione razziale in Sud Africa. E c’è il discorso ecologista di Leonardo di Caprio alla consegna dell’Oscar 2016 come attore protagonista in The Revenant. Tutti esempi di come l’arte si pone al servizio di battaglie sensibili. Perché “oggi un artista non può più essere autorefenziale”, commenta l’architetto e artista Maria Cristina Finucci, “ma deve occuparsi dei grossi problemi che ci affliggono” per sensibilizzare l’opinione pubblica e i rappresentanti politici su diverse sfide di portata mondiale.
Ad esempio, sull’inquinamento marino: “La plastica abbandonata nei fiumi raggiunge gli oceani dove si addensa dando vita ad ammassi rinominati ‘garbage patches’. Lungo questo viaggio viene disaggregata per effetto del mare e del sole e diventa microplastica invisibile all’occhio umano: solo un microscopio può rivelarne la presenza. Ad oggi, negli oceani, ci sono 6 particelle di microplastica ogni particella di plancton”. Per riuscire a comunicare il problema la Finucci ha deciso di dare un nome ai quasi 16 milioni di km2 di ‘terre’ di microplastica abbandonata: “Il 1° aprile 2013 ho ottenuto dall’UNESCO il riconoscimento del Garbage patch state. Lo stato ha una costituzione, un mito fondativo grazie alla collaborazione dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e una bandiera”.
Le installazioni realizzate nel corso degli anni, come la strana creatura Climatesaurus che da Venezia ha raggiunto Parigi in occasione della COP21 o l’installazione Vortice alla fondazione Bracco di Milano, sono “indizi” che aiutano a fissare nella mente l’immagine del Garbage patch state. Azioni dislocate nel tempo e nello spazio che concorrono “a formare l’opera complessa Wasteland”, supportata dall’associazione no profit Arte per la sostenibilità.
Di forte impatto visivo è la scritta HELP, realizzata con oltre 5 milioni di tappi raccolti dalle Università di Roma Tre e Salerno, poi assemblati con i gabbioni Maccaferri grazie al supporto di un centro disabili: “Mi sono chiesta cosa troverà un archeologo del futuro sull’Isola di Mozia – ci spiega la Finucci – Allora ho costruito una città di plastica accanto ai reperti fenici. Dal basso si capisce che sono le sue vestigia, dall’alto si legge un messaggio d’aiuto”.
Comunicazione e sostenibilità si incontrano anche nell’opera Landscape of Desire, esposta nella mostra Alcantara Sustainability Renaissance, durante la settimana di #All4thegreen che ha anticipato il G7 Ambiente di Bologna. Per realizzarla l’artista cinese Qin Feng ha scelto l’Alcantara, materiale prodotto dall’omonima azienda che nel 2009 è stata tra le prime in Italia ad aver raggiunto lo status di Carbon Neutral.
E poi c’è la moda di origine forestale con i tessuti derivanti dalla quercia da sughero, i filati dall’eucalipto, le fibre di cellulosa prodotte anche con scarti di lavorazione del legno, la pelle prodotta con il fungo e il misto di viscosa ottenuta da un mix di specie vegetali. Vetrina del settore è il progetto 3F-Forest For Fashion promosso dall’Associazione PEFC Italia-Programme for endorsement of forest certification che ha raccolto l’entusiasmo dei ragazzidell’Istituto italiano Design di Perugia. Il duplice obiettivo è di accrescere la conoscenza e la consapevolezza su questo materiale, proveniente dalla gestione attiva del patrimonio forestale italiano, e contribuire a incrementare la percentuale di bosco italiano certificato PEFC, dunque gestito in maniera sostenibile, che ad oggi in Italia è solo del 9,2%.
“A livello globale l’industria del fashion è valutata 1,7 trilioni di dollari e dà lavoro a più di 75 milioni di persone – commenta Francesca Dini, area ricerca e sviluppo PEFC – Circa la metà di questa produzione riguarda le fibre di cotone, mentre la maggioranza del rimanente riguarda le fibre sintetiche derivanti dai combustibili fossili. Con la crescente preoccupazione per l’uso improprio delle limitate risorse idriche, l’abuso di pesticidi e le problematiche connesse all’utilizzo di combustibili fossili, l’utilizzo di fibre di legno da foreste gestite in modo sostenibile risulta essere un’ottima opportunità per non incidere negativamente sull’ambiente”. Ad esempio, rispetto alla produzione di tessuti in cotone il lyocell, derivante dall’eucalipto, richiede un consumo di acqua 70 volte inferiore e riduce le emissioni di CO2 equivalenti di 10 volte.
Gli studenti dell’Istituto hanno colto l’opportunità offerta da 3F come una sfida: hanno dovuto cimentarsi con materiali nuovi per il mondo della moda, ma per questo ancora più interessanti. “Inizialmente non è stato semplice lavorare con questi tessuti”, ci spiega Eleonora Granieri, Docente di fashion design presso l’IID. “Per la realizzazione dei sette outfit che hanno recentemente sfilato nella Galleria nazionale dell’Umbria ci siamo ispirati alle figure lavorative delle guardie forestali, dei tagliatori, dei vigili del fuoco e degli operatori nei giardini”. E, sottolinea la Granieri, “abbiamo cercato di rispettare i materiali: non abbiamo aggiunto tinture chimiche ma rispettato i colori d’origine. Ad esempio, per una tuta realizzata con il filato di cipresso abbiamo prodotto una tintura naturale, come si fa per il cashmere”.
Dalle passerelle alla moda quotidiana: l’artista Laura Rovida riflette nelle sue creazioni il proprio stile di vita. Fluido vitale delle sue opere è l’attenzione quotidiana all’ambiente: “I materiali che utilizzo rispettano il cambiare delle stagioni: in quella estiva sfrutto bamboo e seta, soprattutto seta ecologica che viene filata dal bozzolo una volta che la farfalla è volata via e che mantiene il suo colore naturale, che non è bianco. D’inverno lana merinos e lana di pecore allevate a livello locale: con il progetto ‘lane del monte Amiata’ recupero materiale che altrimenti verrebbe buttato per realizzare arazzi, scendiletto e progetti di interno. Bandisco il cotone”.
Nel suo lavoro la Rovida recupera i campionari delle aziende di filati e il materiale di scarto che deriva dalle sue stesse produzioni. E non usa elettricità, perché impiega un telaio manuale in legno che “posso tramandare fino a tre generazioni successive alla mia”, sottolinea.
La sua tavolozza si compone di filati biologici certificati GOTS, di pigmenti vegetali, di tinture controllate e certificate o a base di allume di potassio prodotte nel laboratorio di Capalbio Scalo, in provincia di Grosseto, vicino al suo punto vendita di Manciano. Il suo entusiasmo si affievolisce chiedendole chi compra le sue creazioni: “Mi rivolgo a un ceto medio-alto che ha dai 45 anni in su. Sono 16 anni che faccio questo lavoro e ancora vedo gente che preferisce comprare molteplici magliette piuttosto che acquistarne una di valore che non fa male alla pelle”.
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