microplastiche fibre sintetiche
microplastiche fibre sintetiche

Secondo i ricercatori dell’università della California, ogni anno 167mila tonnellate di fibre plastiche vengono riversate nei mari come conseguenza dei lavaggi di indumenti. Gli abiti che indossiamo sono per la maggior parte composti da materie plastiche come poliestere, elastan e nylon, con la conseguenza di inquinare i corsi d’acqua e poter essere smaltiti solo in tempi molto lunghi.

Un capo su due è composto da plastica, secondo uno studio pubblicato dalla Bbc infatti, il 49% dei diecimila prodotti analizzati viene fatto con poliestere, elastan e nylon, perché sono fibre economiche e possono essere impiegate in diversi modi.
Queste fibre poi, in seguito ai lavaggi, rilasciano microplastiche nell’acqua, che in questo modo rientrano anche nella catena alimentare.
Ad impattare significativamente inoltre, sono comportamenti come la “throw away culture” che consiste nel comprare indumenti che poi vengono cestinati dopo il minimo segno di usura, pratica legata a doppio filo con il fast fashion.

Secondo la rivista scientifica Popular Science, anche la finta pelle realizzata con polimeri termoplastici o Pvc non è una soluzione, data la quantità di prodotti chimici necessari.

Possibili soluzioni

La pelle ha sicuramente un impatto ambientale, ma come spiega Annalisa De Piano, co-fondatrice di Be green tannery, conceria campana impegnata ad essere sostenibile, scegliere materiali che durino a lungo e che abbiano il minor impatto possibile sull’ambiente è possibile. Inoltre, se sostenibile, il trattamento delle pelli del settore conciario costituisce il primo anello di un’economia circolare, che nobilita un prodotto di scarto dell’industria alimentare. Recuperando e lavorando la pelle di scarto, si evita che si trasformi in un rifiuto inquinante, pericoloso per l’ambiente, donandogli una seconda vita. Se poi, come in questo caso, non si utilizzano metalli pesanti, le ceneri derivanti dai prodotti generano un compost inerme dalle molteplici applicabilità.

Un tessuto naturale che evita l’impiego della plastica

In Svezia, è stato creato un tessuto naturale e idrorepellente che permette di evitare l’utilizzo di prodotti chimici per gli impermeabili. L’India invece sta investendo nella juta, che permette con un ettaro di coltura di assorbire 15 tonnellate di anidride carbonica e rilasciarne 11 di ossigeno in una sola stagione e richiede molta meno acqua rispetto al cotone.
Secondo la rivista Nature, nell’oceano Artico si concentrano 40 particelle di microplastiche per metro cubo, per lo più provenienti dal poliestere.

Per arginare il fenomeno, si possono utilizzare alcuni accorgimenti quali: filtri per la lavatrice, non lavare ad elevate temperature e privilegiare il detersivo liquido.
La plastica è nociva oltre che per l’ambiente, anche per la salute umana, come confermato anche da una ricerca dell’Università di New York e pubblicata sulla rivista Environmental pollution che ha dimostrato il legame tra alcuni decessi prematuri e l’esposizione agli ftalati, composti chimici impiegati soprattutto nella produzione del Pvc.

Alcuni materiali che non impattano negativamente sulla natura

Si possono elencare alcuni materiali che non impattano negativamente sulla natura con cui vengono realizzati dei capi e sono: la juta, che come suddetto, è in grado di assorbire la CO2 e rilasciare ossigeno; le foglie di loto per i capi idrorepellenti; i denti di seppia, che come scoperto dai ricercatori della Penn state university, grazie alle proteine che la compongono, sono molto simili alla seta. Infine, altri brand si sono cimentati nell’utilizzo di materiali alternativi e sostenibili come i fondi del caffè per realizzare le scarpe da tennis, o ancora il lino, composto per il 70% da cellulosa e la canna da zucchero.


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