Il settore moda è oramai sotto i riflettori per via del suo impatto negativo sull’ambiente. Sostanze chimiche impiegate, emissioni prodotte, microplastiche ed elevato consumo di acqua di un settore idrovoro, ci fanno capire che policies e filiera devono andare di pari passo verso la sostenibilità.
Ecco perché il verde e il blu sono stati i colori protagonisti, lo scorso 15 settembre, del web in air online “Il green e il blu, una sorgente di moda sostenibile”, organizzato da regione Lombardia e Cap, gestore del servizio idrico integrato dell’area metropolitana di Milano.
“L’attenzione quando si parla di moda sostenibile va posta sul come si fa un prodotto non sul cosa si fa”, afferma Andrea Crespi, presidente del Comitato sostenibilità di Sistema Moda Italia. “Oggi il concetto di longevità dei prodotti è la chiave, invece il fast fashion ha contribuito enormemente all’aumento dell’inquinamento del settore. Inoltre, bisogna misurare l’impatto di un prodotto per capire se è sostenibile o meno e dare valore al capo, un pò come avviene per le etichette energetiche degli elettrodomestici. La misurazione deve essere alla base del concetto di sostenibilità”.
Regione Lombardia per la moda sostenibile
Paola Negroni, vice direttrice di turismo marketing territoriale e moda di regione Lombardia, racconta di come per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. La Regione si è dotata di una propria strategia per lo sviluppo sostenibile, coinvolgendo stakeholder e promuovendo il confronto attraverso una piattaforma. “È necessario fare ricerca per progettare e produrre in modo diverso, intervenendo sulla filiera produttiva e allungando la vita dei prodotti, ma facendo anche in modo che possano essere scomposti e ricomposti più volte”.
“Che la moda sia in qualche modo legata allo spreco è un elemento oggettivo”, sostiene Marco Ricchetti, fondatore di Blumine Srl. “La frase ‘non è di moda’, la dice lunga su un trend che va per la maggiore. Per quanto riguarda il problema delle microplastiche, è difficile che si risolva eliminando di punto in bianco il sintetico, è necessario misurare prima il grado di inquinamento prodotto dall’azienda”. Le nuove tecnologie di riciclo, prosegue, promettono entro cinque anni di usare materiali e processi molto diversi. “Nella moda però, non ci sono passaggi semplici e veloci. Mentre sul piano dell’economia circolare si stanno facendo dei progressi, sul post-consumo ancora la strada è lunga, a causa della carenza di strutture ben organizzate”.
La sfida delle microplastiche e dei microinquinanti
A proposito di microplastiche Desdemona Oliva, direttrice ricerca e sviluppo del gruppo Cap ha affrontato il tema in rapporto ai depuratori. “In primo luogo, bisogna dire che la frazione delle microplastiche è molto complessa e non è stata ancora definita a livello scientifico, sappiamo che è inferiore ai 5mm, deriva da tessile e pneumatici e che i pezzi di plastica derivano dai poliesteri e poliammidi che determinano la formazione delle microplastiche, aventi dimensioni differenti. Inoltre, non è ancora stato definito come nel lavaggio dei tessuti si liberino e come si accumulino negli impianti di depurazione”, spiega la direttrice Oliva. L’uso di soluzioni innovative e alternative ai depuratori, costruiti senza pensare di dover catturare fibre di queste dimensioni, sarà indispensabile per evitare la circolazione delle microplastiche nel ciclo fognario, dallo scarico delle lavoratrici e delle lavastoviglie.
La posizione di Gruppo Cap
“Innanzitutto, lavorando su soluzioni innovative, sviluppando metodologie di campionamento adeguate delle acque reflue, mappando l’evoluzione delle microplastiche lungo il processo depurativo, misurando l’impatto a livello di tossicologia umana e ambientale, valutando potenziali tecnologie eco-sostenibili per la degradazione delle microplastiche e misurando l’eventuale impatto positivo delle microplastiche biodegradabili”, afferma la direttrice Oliva.
Oltre a ciò, c’è da affrontare una sfida analitica sulle microplastiche fibrose. Bisogna avere dei metodi strutturati e sapere quante ce ne sono per avere dati quantitativi e qualitativi. Sono piccolissime, ma tutte diverse e con una matrice molto complessa. Un’altra sfida è quella impiantistica, dovuta ai differenti risultati attesi in base ai differenti impianti che le catturano.
“Ad oggi, non ci sono criteri standardizzati per definire e categorizzare l’emissione di microplastiche da impianti di produzione, così come gli standard di qualità ambientale. Pertanto, solo con dei metodi analitici standardizzati per caratterizzare il campione si potrà capire meglio l’impatto delle microplastiche. Cap, come gestore del servizio idrico, può sicuramente continuare a produrre dati di ricerca”. Sul filtro da mettere alla lavatrice per la cattura delle microplastiche, la direttrice Oliva conferma che possono costituire una prima barriera, ma va ovviamente cambiato e pulito spesso. Certamente però, lo studio di sostanze biodegradabili potrebbe aiutare più del filtro.
L’impegno dei brand per essere sostenibili
Marco Bressan, head of people&culture di Primark Italia, ha parlato del marchio tenendo a precisare che il fatto di volerlo rendere accessibile a tutti, non significa che ciò debba andare a discapito del Pianeta. “I nostri capi sono convenienti e questo non è in contrasto con la sostenibilità. Primark ha prezzi bassi perché non spende in marketing e comunicazione. Il nostro obiettivo è la convenienza e la sostenibilità: nei nostri 398 negozi abbiamo lo stesso assortimento e questo ci permette di individuare un solo fornitore. E’ la forma commerciale stessa di Primark che ci permette di mantenere bassi i prezzi”.
Il brand è comunque consapevole di dover fare ancor di più per essere sostenibile, per questo tra gli obiettivi: quello di allungare la vita del prodotto e far sì che questo arrivi da prodotti riciclabili che possano a loro volta essere riciclati. Per quanto riguarda l’approvvigionamento responsabile, l’obiettivo è di arrivare al 25-35% di riciclabile.
Nuovi materiali, nuove soluzioni
Alan Garosi, marketing manager di Fulgar ha raccontato l’esperienza del brand che produce una fibra di nylon 6,6 ecosostenibile, la Q-Nova, completamente prodotta in Italia (Lombardia), ottenuta da materie prime rigenerate e completamente tracciabile.
Realizzata principalmente da materiali di scarto provenienti dal ciclo produttivo del nylon 6,6, è così “zero waste”. Q-Nova utilizza un processo innovativo: il “Melting Continuous System”, un sistema di rigenerazione meccanica. I materiali di scarto raccolti infatti, non potrebbero essere riutilizzati in nessun modo, se non smaltiti come rifiuto. Con questa rigenerazione, lo scarto-rifiuto viene valorizzato nuovamente attraverso il processo meccanico che lo rigenera, in questo modo rinasce sotto forma di polimero che subirà altre lavorazioni. Q-Nova è tracciabile grazie ad uno speciale ingrediente che inserito nella poliammide permette di verificare l’autenticità dell’origine riciclata del filato.
“A breve lanceremo un prodotto da un rifiuto post-consumo degli pneumatici a fine vita, altamente inquinanti e a disposizione in quantità, continua Garosi. Riciclato stavolta, attraverso un processo chimico. Il prodotto è pronto, ma attendiamo il report che ci dirà come impatta questo sistema di riciclo”.
Il lavoro di Wwf sul tessile
L’avv. Paola Brambilla Pievani, coordinatrice del Comitato giuridico nazionale di Wwf Italia, afferma: “I produttori che spesso parlano di trasparenza sono responsabili di 3 condotte: la prima, una eccessiva informazione, ma senza una reale misurazione degli impatti ambientali; la seconda, il data dumping che tende a non computare nel costo del prodotto ciò che serve per l’accountability; la terza è il rappresentare la propria immagine con racconti edulcorati che in realtà nascondono quanto queste filiere siano sfruttate dal punto di vista naturale e umano”.
Il settore moda è assolutamente strategico dal punto di vista dei Sustainable development goals, perché si presta ad una serie di alleanze che hanno a che fare con diverse strategie che partono dal basso, in modo da raggiungere una gestione partecipata della risorsa, come la “Water stewardship”.
Il suo obiettivo è creare dal basso verso l’alto una “soft law”, si tratta di un approccio con cui dei soggetti privati, come le Ong o i soggetti business, condividono linee di condotta che diventano una legge privata vincolante all’interno di aziende e comunità che si danno queste regole, diventando dei modelli normativi circolari vincolanti. In quanto tali, sono capaci di diventare legislazione. E’ un processo bottom-up, dove i soggetti produttivi e le comunità locali si allineano a linee guida di gestione della risorsa, internalizzando nelle proprie politiche questi modelli di sostenibilità. L’obiettivo è rafforzare la legislazione esistente.
I principali pilastri da prendere in considerazione sono la supply chain, il tema dell’efficienza delle risorse fondata su dati scientifici, la trasparenza e i modelli di business circolare.
La dura vita del consumatore
La prof.ssa Emanuela Mora, direttrice del centro ModaCult dell’università Cattolica del Sacro Cuore, concludendo conferma il fatto che il consumatore non abbia vita facile: “Spesso cade nella trappola del richiamo all’acquisto, perché tentato da capi accessibili che cambiano ogni 15 giorni, e poi, la moda stimola desideri. Anche se fa uno sforzo verso qualche brand, spesso scopre che fa greenwashing. Inoltre, la poca trasparenza nelle informazioni e i messaggi confusi lo disorientano. In questo senso, le Ong possono fornirci informazioni credibili, come WWF, ma nel complesso, su cosa possano fare i consumatori rimane una risposta complessa”.
Considerazioni finali
I consumatori, lasciati da soli, hanno un compito troppo oneroso. Vanno aiutati a cambiare i loro comportamenti quotidiani. Questo aiuto deve arrivare dalla filiera distributiva, dalle tecnologie (es. fibre innovative) e occorrono dei cambiamenti culturali, come ad esempio, indossare a lungo lo stesso capo oppure acquistare l’usato, in crescita, ma all’interno di nicchie.
“Sotto l’aspetto dei comportamenti, nessuna scelta andrà bene per tutti i profili, ma identificare fonti di informazione e brand meritevoli della nostra fiducia ci aiuterà, perché la transizione è nell’interesse di tutti”, conclude la prof.ssa Mora.
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