- Gli ingegneri dell’Università di Pisa hanno progettato un sistema innovativo per estrarre materie prime critiche dai prodotti di scarto delle industrie che lavorano il metallo duro.
- Economico e sostenibile, consente di ridurre fino al 30% il materiale vergine da impiegare nella produzione di nuovi manufatti. Ne parliamo col coordinatore della ricerca.
L’Overshoot Day, giorno in cui la Terra termina le proprie risorse rinnovabili, arriva ogni anno sempre prima. È ormai evidente che un modello di sviluppo basato sul consumismo sfrenato non è sostenibile, mentre bisogna investire nell’economia circolare. Esattamente quello che ha fatto un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa, i quali hanno ideato un metodo a ridotto impatto ambientale per trattare gli scarti delle lavorazioni industriali del metallo duro e recuperare le materie prime critiche strategiche presenti al loro interno.
La collaborazione fra università e industria
“Sono residui derivanti dalla realizzazione di utensili che servono per altre lavorazioni e che, di conseguenza, devono essere fatti di materiali molto duri. Se il diamante nella scala di Mohs corrisponde al dieci, nel caso di questi metalli arriviamo a otto/nove”, spiega il professor Michele Lanzetta, coordinatore della ricerca cui hanno contribuito anche Maurizia Seggiani, Alessio Pacini, Francesco Lupi e Andrea Rossi. Lo studio è stato pubblicato il 5 febbraio sulla rivista Materials. “La Cumdi S.r.l., azienda con cui abbiamo collaborato, lavora barrette cilindriche sinterizzate che poi vengono trasformate in utensili di precisione”.
Il recupero di carburo di tungsteno e cobalto
Le rimanenze che derivano dal processo di rettifica di queste barre sono composte principalmente da carburo di tungsteno (WC) e cobalto (Co). “Queste sostanze vengono estratte nei siti minerari con processi abbastanza energivori, oppure possono essere recuperate dagli scarti di produzione. Gli attuali sistemi di recupero prevedono l’impiego di prodotti chimici che poi necessitano di essere smaltiti, mentre il procedimento che proponiamo noi riesce a farne a meno”, prosegue Lanzetta.
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Lo studio a cura del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale
La metodologia sviluppata dal Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’ateneo pisano, che prevede di limitare i contaminanti che alterano il rifiuto così da mantenerlo il più puro possibile, richiede operazioni e attrezzature più semplici rispetto alle tecniche tradizionali. Si tratta, insomma, di un processo più economico e sostenibile che non necessita di essere esternalizzato e che consente di ridurre fino al 30 per cento il materiale vergine da impiegare nella produzione di nuovi manufatti. Cosa che, a sua volta, riduce la dipendenza del settore dalle importazioni, lasciando più spazio a industrie come quella dell’auto elettrica. “Il cobalto è anche un materiale abbastanza pericoloso che può risultare nocivo per la salute: meno lo si tratta, meglio è. Quindi, riuscire a tenerlo all’interno della filiera è indubbiamente positivo”, puntualizza il professore.
Le applicazioni pratiche
Le varie indagini sono state condotte grazie all’utilizzo della rete capillare di laboratori dell’università e delle attrezzature del Center for Instrument Sharing (CISUP), oltre al supporto di enti esterni. “Avendo la necessità di svolgere innumerevoli analisi di vario tipo e trattandosi di un tema fortemente interdisciplinare, abbiamo dovuto fare affidamento sulle competenze di molteplici dipartimenti, compresi quelli di Scienze della Terra e Chimica Industriale”. Le sperimentazioni hanno dimostrato la fattibilità del processo. L’obiettivo, adesso, è di arrivare a industrializzarlo. “La Cumdi è senz’altro interessata a portare avanti il lavoro, visto che negli ultimi anni ha stoccato numerose tonnellate di materiale di scarto. E noi abbiamo già progettato un impianto con cui poterle trattare”, conclude Michele Lanzetta.
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