“Anche se sapessi che domani il mondo finisse, pianterei lo stesso nel mio giardino un albero di mele”. È un’affermazione di Martin Lutero, particolarmente amata da Martin Luther King. L’albero è, da sempre, simbolo di vita. È una delle prime forme che i bambini imparano a disegnare, con il tronco marrone e la chioma verde. Il profumo della resina è, per chi ha avuto la fortuna di trascorrere qualche mese in montagna, un ricordo indelebile dell’infanzia. Proprio come lo studio della fotosintesi clorofilliana. E addirittura esiste la silvoterapia, una pratica che consiste nell’abbracciare gli alberi per ritrovare il benessere interiore. Del resto, questi straordinari esseri viventi ci forniscono una serie di benefici che vanno dall’assorbimento del carbonio alla regolazione del ciclo dell’acqua, dall’abbassamento delle temperature alla protezione contro il dissesto idrogeologico.
Proprio per questo, sono sempre di più le aziende che scelgono di investire in progetti di riforestazione. Attività indubbiamente utili, quanto facili da comunicare, che non dovrebbero essere condotte con superficialità. “Prima di tutto, gli alberi non possono essere abbandonati a loro stessi, proprio perché non sono nati spontaneamente, ma siamo stati noi a piantarli. Hanno bisogno di cure maggiori, soprattutto nei primi anni, di protezione dalla siccità e dagli animali erbivori. E poi c’è da dire che piantare un albero sembra la cosa più facile del mondo, ma in realtà si può scegliere fra 70mila specie: bisogna prendere una decisione oculata non solo dal punto di vista della biodiversità, ma anche in riferimento al clima che ci sarà in futuro”, spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano.
Le tecniche di pianificazione forestale
Inoltre, il fatto di piantare nuovi alberi non deve portarci a dimenticare quelli che già esistono. Le foreste in Italia coprono circa il 40 per cento del territorio: senza cure adeguate, con un clima che cambia, non saranno più in grado di svolgere le loro funzioni benefiche. “Già i segnali che vediamo, dagli incendi nelle stagioni più estreme fino ai danni causati dal vento, dalle tempeste o dalla siccità, ci dimostrano che non possiamo dare per scontato il lavoro delle foreste che già ci sono”, avverte Vacchiano.
Ecco perché, accanto ai progetti di riforestazione, bisognerebbe investire nella pianificazione forestale. Un’attività “simile all’elaborazione del piano regolatore di una città. Per esempio, conosciamo bene le tecniche per prevenire i danni causati dagli incendi, dall’eliminazione della vegetazione secca nei punti più strategici, all’inserimento di viali tagliafuoco con una ridotta densità di biomassa che rallentino le fiamme o permettano di governarle meglio. Si può anche aumentare la resistenza delle piante alla siccità, favorendo certe specie che sono per natura più resistenti di altre. Oppure, la loro resistenza al vento. Tutte queste azioni richiedono un investimento iniziale, ma portano grandi benefici nel lungo periodo”, prosegue il ricercatore.
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Il ruolo dei tecnici e degli operatori forestali
Di norma, la pianificazione ha per oggetto un territorio abbastanza ampio, cosa che permette di assegnare funzioni diverse a boschi diversi all’interno di uno stesso Comune o di una stessa vallata. Come spiega Vacchiano, sono almeno due le figure che operano in questo mondo. La prima è quella dei tecnici, laureati che, in Italia, sono iscritti all’ordine dei dottori agronomi e forestali: sono i titolari della pianificazione; le persone che, per legge, hanno le competenze per stabilire le varie aree di intervento. Poi ci sono gli operatori forestali, che sono coloro che lavorano direttamente nel bosco e hanno le abilità per piantare gli alberi, tagliarli, e prendersene cura.
“È un settore che, negli ultimi decenni, è stato trascurato. Eppure, c’è bisogno di professionisti che abbiano nuove competenze rispetto a cinquant’anni fa, che sappiano cosa fare di fronte alle pressioni del clima, che conoscano le tecniche di prevenzione degli incendi, o di conservazione della biodiversità. Occorre, quindi, che la società riconosca e apprezzi il lavoro di queste persone, garantendo loro un adeguato trattamento economico, un’adeguata formazione e il diritto alla salute”, puntualizza il ricercatore.
Il concetto di Climate-Smart Forestry
Abbiamo detto che la pianificazione forestale deve necessariamente tenere conto del clima che cambia. È da questo presupposto che nasce il concetto di Climate-Smart Forestry: significa lavorare sulla struttura del bosco per renderlo più resistente a certi fenomeni. Se, per esempio, un bosco è molto denso e ha tantissimi alberi che per raggiungere la luce hanno dovuto crescere in altezza, i loro tronchi saranno più fragili e meno resistenti alle folate di vento.
“In quel caso, potrebbe essere utile andare a togliere qualche albero, in modo che quelli che restano abbiano più spazio per svilupparsi e iniziare a irrobustirsi e che il terreno riceva più luce, favorendo la germinazione dei semi”, spiega Vacchiano. “Inoltre, se possibile, sarebbe strategico mantenere una parte di specie come la betulla e il pioppo, che sono specializzate nel crescere in pieno sole e sono le prime a rinascere dopo una catastrofe: se succede qualcosa di brutto al bosco, almeno hai questi semi specializzati nel ricolonizzare velocemente le aree danneggiate”.
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La gestione sostenibile delle risorse naturali
Questo esempio mette in luce come tagliare alberi non sia sempre sbagliato. Ciò che conta davvero è scegliere con attenzione come utilizzare il legno: di norma, può essere usato come combustibile, oppure impiegato in settori come l’edilizia. “Sicuramente, la seconda opzione è più intelligente dal punto di vista climatico. Se il legno viene bruciato, invece, il carbonio che ha intrappolato se ne torna subito nell’atmosfera. Inoltre, non è detto che, se le piante ricrescono, siano in grado di compensare tutte le emissioni generate dalla combustione. Non è nemmeno scontato che la foresta ricresca: dipende dalla grandezza degli alberi che vado a tagliare, dalla fertilità del terreno, dalla vulnerabilità dell’area. È una scommessa il cui esito sta diventando sempre più incerto”, commenta Vacchiano.
Lo ha confermato anche un’inchiesta del New York Times, che ha svelato come la domanda di legname per produrre pellet stia mettendo a rischio la salute delle foreste europee. Secondo Giorgio Vacchiano, bisogna fare una distinzione. “La generazione di elettricità non è un procedimento molto efficiente e richiede grandi quantitativi di legno. Diverso, invece, è il caso degli impianti a biomassa per il teleriscaldamento, più piccoli e più efficienti, in zone magari di montagna dove intorno c’è un’ampia superficie forestale che può fornirmi modeste quantità di legname senza andare in crisi”. Insomma, è chiaro che, quando si parla di tutela del nostro Pianeta, nulla possa essere lasciato al caso. Un po’ come in una storia d’amore, bisogna dare e ricevere; servono impegno, investimenti, anche qualche piccolo sacrificio. Ma ne varrà la pena, questo è certo.
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