Rse ha recentemente annunciato i risultati di un nuovo studio sulla correlazione tra povertà energetica e salute dei consumatori, per analizzare il potenziale impatto che tale fenomeno ha sul sistema sanitario nazionale (Ssn); l’obiettivo, quanto mai vero in questo caso, può essere riassunto nello slogan “meglio riqualificare che curare”.
Ovvero, come emerge dallo studio, nelle abitazioni degli utenti vulnerabili, per ridurre le spese, in inverno spesso la temperatura in casa è mantenuta al di sotto del livello di comfort minimo (18°C, secondo studi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità); ciò crea le condizioni per un incremento della probabilità di contrarre malattie all’apparato respiratorio e cardiovascolare, i cui effetti, oltre ovviamente a considerazioni di giustizia sociale, si riverberano sul bilancio dello stato come “esternalità sociali” a carico della collettività. Allo stesso tempo, anche il mantenimento di temperature molto elevate nei mesi estivi (per mancanza di impianti di raffrescamento), soprattutto in concomitanza delle sempre più frequenti “ondate di calore”, ha conseguenze deleterie sulla salute umana.
Lo studio sulla correlazione tra povertà energetica e salute è stato eseguito nell’area metropolitana di Torino
Per studiare il fenomeno Rse ha svolto uno studio sull’area metropolitana di Torino, avvalendosi dell’esperienza e dei dati dell’Osservatorio epidemiologico Asl 3 di Torino, dimostrando l’assunto per cui la povertà energetica possa essere correlata allo stato di salute degli individui e alla probabilità di morte prematura dovuta a caldo e/o freddo. Dai primi risultati dello studio, emerge che, nei quartieri caratterizzati da un più alto numero di utenti vulnerabili, la probabilità di incorrere in una morte prematura cresce del 7% e quella di ospedalizzazione cresce di un tasso compreso tra il 5% e il 46%, a seconda della fascia d’età e della patologia considerata, rispetto ai quartieri in cui il tasso di vulnerabilità energetica è medio o inferiore alla media. È emersa, quindi, una variabilità geografica nella salute che, almeno stando ai risultati finora conseguiti, può essere assimilata alla variabilità di distribuzione del fenomeno della povertà energetica. Si osserva, cioè, un divario fra i quartieri socio-economicamente svantaggiati e quelli più ricchi che può essere sintetizzato dalla differenza di circa 4 anni nella speranza di vita per gli abitanti tra un estremo e l’altro.
Per queste ragioni è auspicabile rimuovere il fenomeno alla radice, riqualificando gli edifici fatiscenti e poco efficienti in cui vivono le famiglie in PE, aumentando il comfort e la qualità della vita all’interno dei locali, così da ridurre significativamente l’impatto sul sistema sanitario. E i costi, necessari per la riqualificazione, potrebbero essere parzialmente coperti dai “costi evitati” dal Ssn. Innescando questo circolo virtuoso si potrebbero generare molti effetti indotti, facilmente riconducibili ad una maggiore inclusione sociale e sostenibilità: proprio come recitano il Green Deal e i principi ispiratori del Recovery Fund.
Questo approccio, per altro, come emerge dallo studio di Rse, che si occupa del tema da un po’ di anni, è anche di prospettiva, in virtù del fatto che il complesso e multidimensionale fenomeno della PE, che attualmente coinvolge circa il 12-13% delle famiglie italiane, con gravi conseguenze sul benessere psico-fisico e sociale degli individui è destinato a crescere nei prossimi anni, se non si svilupperanno efficaci politiche di contrasto al fenomeno.
A seguito, infatti, delle previsioni di maggiori spese per la climatizzazione degli edifici, come misura di adattamento ai cambiamenti climatici, e a fronte della riduzione dei redditi per effetto delle crisi economica indotta della pandemia e già aggravata dalla recessione economica che ha, negli ultimi anni, interessato il Paese, è prevedibile un aumento della forbice di diseguaglianza sociale nella popolazione. Dunque, “meglio riqualificare che curare”.
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