Quando si acquista un cellulare spesso si pensa unicamente alle sue funzionalità: connessione veloce a internet, invio di e-mail, programmi per comunicare con parenti e amici o per scattare fotografie in modo da arricchire il proprio diario di viaggio “elettronico”. Non si riflette, però, sulle ripercussioni che la catena di approvvigionamento e di produzione delle batterie degli smartphone hanno su salute, ambiente e occupazione. E, talvolta con troppa leggerezza, non ci si impegna a riciclare questi dispositivi che, seppur giunti a fine vita, possono trasformarsi in vere e proprie risorse.
Un esempio arriva da oltreoceano: negli Stati Uniti il 95% degli americani possiede un cellulare, ma circa 135 mln di dispositivi finiscono in discarica. A livello mondiale, viene recuperato solo il 14-17%. Una perdita enorme di risorse contando che le batterie agli ioni di litio impiegate negli smartphone sono riciclabili al 100%.
Non solo, su queste batterie sono installate anche in tanti altri dispositivi – come tablet, fotocamere e pc portatili – e la domanda di litio, che dal 1991 ad oggi è cresciuta notevolmente, è destinata ad aumentare. Ma come sono fatte queste batterie? E, soprattutto, da dove arrivano le materie prime che le compongono?
Lo studio di Esri monitora la catena di approvvigionamento e produzione delle batterie
Uno studio di Esri mostra l’evoluzione della catena di approvvigionamento e di produzione delle batterie agli ioni di litio, teatro di azione di molte ed eterogenee compagnie.
Le 3 materie prime
Le batterie sono composte da 3 componenti principali: cobalto per gli elettrodi positivi (o catodi); grafite per gli elettrodi negativi (o anodi); litio per gli elettroliti. La maggior parte di queste materie prime provengono da aree specifiche del globo.
COBALTO
Oltre il 60% del cobalto utilizzato a livello mondiale arriva dalla Repubblica democratica del Congo, in particolare dall’area meridionale del Paese, e il 40% viene impiegato per la produzione di batterie ricaricabili. Il Governo ha dato l’ok a centinaia di concessioni che permettono di fare ricerca o di estrarre minerali e metalli. Una volta recuperata questa materia, viene sciacquata, suddivisa e impacchettata per poi essere venduta a imprenditori cinesi. Questi a loro volta, lo rivendono alle più grandi aziende di trasformazione. La maggior parte del cobalto va alla cinese Congo DongFang International Mining (CDM), posseduta da uno dei più grandi manifatturieri del mondo, loZhejiang Huayou Cobalt. È questo a lavorarlo ed esportarlo alla Huayou Cobalt in Cina spesso attraverso i porti di Tanzania e Sud Africa. A sua volta la Huayou Cobalt vende il cobalto ai produttori di catodi, tra i più grandi Toda Hunan Shanshan, Pulead Technology Industry, Tianjin Bamo Science e Technology e L&F Material.
Nel Paese le condizioni di lavoro sono molto difficili: l’inalazione delle microparticelle durante l’estrazione del cobalto lede le vie respiratorie e i lavoratori del posto sono sottoposti a lunghe ore di lavoro per paghe spesso esigue. Amnesty International ha anche rilevato la presenza di lavoro minorile: i bambini hanno spesso il compito di trasportare sacchi pesanti di cobalto, tra 20-40 kg, per 12 ore al giorno.
GRAFITE
La grafite può essere prodotta sinteticamente, ma quella più conveniente è quella naturale. La Cina è il più grande fornitore di grafite naturale: qui nel 2016 è stato prodotto il 66% della grafite usata a livello mondiale. La fonte più ricca è la Provincia di Heilongjiang, nel nord della Cina, mentre il centro di produzione più grande è lo Shenzhen BTR New Energy Materials Inc, che possiede delle mine o che acquista la grafite da compagnie più piccole (Haida, Aoyu Graphite, and Hensen). Una volta estratta, lo Shenzhen BTR trasforma la grafite in anodi che sono spediti alle fabbriche di batterie.
Anche qui sono stati rilevati problemi di salute per i lavoratori e ripercussioni negative sull’ambiente: la polvere di grafite può essere trasportata dal vento per centinaia di km, inquinando l’aria o l’acqua, e causando malattie respiratorie per coloro che la inalano.
LITIO
Il litio può essere estratto da una materia grezza, la salamoia, o dalla roccia dura. Nel primo caso le riserve maggiori si trovano in Cile, nella regione dell’Atacama, dove viene prodotto il 37% del litio usato a livello mondiale. Di recente, poi, l’estrazione si è estesa ad Argentina e Bolivia creando il famoso “triangolo del litio”. Invece, il secondo caso è più comune in Australia che nel 2015 è stato il leader mondiale nella produzione di litio: la miniera più grande è la Greenbushes dove vengono prodotte 65.00 ton di litio l’anno. Le maggiori compagnie estrattive dal Cile e dell’Australia sono: Sales de Jujuy, Minera Exar, SQM, Tianqi Lithiu e Albermarle.
Un grosso problema nel recupero di questo materiale riguarda il consumo di acqua: la raffinazione del litio consuma oltre 500.000 galloni d’acqua per tonnellata.
La chiusura della catena di approvvigionamento e produzione
Una volta che cobalto, grafite e litio sono trasformati in catodi, anodi e elettroliti, le compagnie vendono i loro prodotti ai produttori di batterie che hanno sede soprattutto in Cina, Giappone e Corea, pari all’85% della capacità di produzione globale. Quattro dei più grandi produttori di batterie ricaricabili – Panasonic, Samsung SDI, LG Chem e Amperex Technology Limited – hanno impianti in Cina e producono oltre il 60% delle batterie ricaricabili del mondo che vengono poi montate nei prodotti di: Apple, LG, Samsung, Microsoft, Lenovo, Huawei e Sony.
Tutto questo percorso richiama il cosiddetto effetto farfalla: un piccolo gesto in una parte del mondo può generare nel lungo termine un “uragano” dall’altra parte del pianeta.
Per ricevere quotidianamente i nostri aggiornamenti su energia e transizione ecologica, basta iscriversi alla nostra newsletter gratuita
e riproduzione totale o parziale in qualunque formato degli articoli presenti sul sito.