Non sono solo i consumatori a chiedere più sostenibilità per il prossimo futuro, ma anche gli investitori che però corrono il rischio di essere seriamente danneggiati dal crescente fenomeno del greenwashing.
Il tema è stato approfondito al sesto Simposio internazionale “Greenwashing and sustainability: a growing trend that needs to be addressed”, organizzato da Alcantara in collaborazione con Viu -Venice international university e la Social impact agenda per l’Italia.
Il ministro delle infrastrutture e mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, intervenuto all’evento, ha dichiarato: “Tutti parlano di sostenibilità in diversi termini e su diversi prodotti. Tutti ne parlano, ma i policy maker devono compiere degli sforzi a tutti i livelli per diventare più sostenibili, dai produttori a chi lavora nella finanza. Siamo nella pipeline di un cambiamento significativo e bisogna cambiare il modo in cui le aziende lavorano”.
“Il greenwashing“, continua il ministro, “è un grosso rischio, specialmente nel settore finanziario. Bisogna trovare una tassonomia sulle attività economiche e regole dure, tenendo presente che l’Unione sta diventando la prima emittente di bond Sdgs. Gli strumenti per arginare il greenwashing quindi sono: definizioni comuni e trasparenza su ciò che le aziende fanno, una comparabilità internazionale sugli standard e la tassonomia”, conclude Giovannini.
Investitori sostenibili
Negli Stati Uniti all’inizio del 2020 il valore degli asset degli investimenti socialmente responsabili ha raggiunto i 17.1 trilioni di dollari, che si traduce in un incremento del +42% dal 2018.
Monica Billio, professoressa di econometria al dipartimento di Economia dell’università Ca’ Foscari di Venezia, ha spiegato che questo incremento di domanda per gli investimenti sostenibili ha determinato il proliferare di agenzie di rating Esg e dei loro rating di sostenibilità.
Ciò ha conseguentemente ingenerato un altro problema, ovvero che nove principali grandi agenzie di rating Esg, di recente costituzione (in media 10 anni), non si basano sugli stessi parametri per fare le proprie valutazioni, contrariamente a quanto necessita il mercato, cioè dati attendibili ed uniformi.
Succede che le fonti delle informazioni possano cambiare da un’agenzia all’altra, oppure cambino i principali fattori di rischio valutati, modificando così decisamente le procedure di ponderazione.
Dunque, queste differenze pregiudicano il rating finale, soprattutto perché le correlazioni medie dei punteggi dei differenti Esg raters variano tra il 40 e il 70%.
L’impatto sugli investitori di una diversa metodologia di valutazione
Le agenzie di rating Esg, cambiando spesso la propria metodologia, hanno inevitabilmente un impatto sugli investitori, che sono molto sensibili a questi cambiamenti. Le implicazioni sono divergenze e confusione e comportano il rischio che gli investitori allochino in modo inefficiente i propri capitali, facendo così greenwashing.
Quindi, secondo l’analisi della professoressa Billio, c’è bisogno di un appropriato quadro informativo che non lasci gli investitori svantaggiati, di un’informazione che aiuti ad evitare il greenwashing e di manager competenti.
Il ruolo della regolazione europea sul greenwashing
Invece, per tutelare maggiormente il consumatore dal greenwashing e dai green claim ingannevoli, la legge europea a tutela dei consumatori è stata rafforzata attraverso la Cpc (Consumer protection cooperation network) sweep on green claims.
Un “sweep” è un insieme di controlli effettuati simultaneamente sui siti web, per identificare le violazioni del diritto dei consumatori dell’Unione in un particolare settore. Dopo i Cpc sweeps, i reclami sono arrivati a toccare il 97%, come ha illustrato Ioannis Ampazis, legal and policy officer Commissione europea.
I Cpc sweeps sui green claim
La base legale è la direttiva 2005/29/EC “On unfair commercial practices”.
Un green claim viene definito come un’offerta in cui il venditore suggerisce o crea l’impressione che un bene o un servizio abbia un impatto positivo o non ne abbia alcuno sull’ambiente.
Quindi, questo specifico sweep si focalizza su tutti i claim relativi all’ambiente e alla sostenibilità. In un solo mese, tra ottobre e novembre 2020, 24 Paesi membri hanno accertato 344 claim sulla sostenibilità contro diversi aspetti, in diversi settori. Il 24% nel tessile, il 17% sui cosmetici e il 15% sui servizi di viaggio.
I risultati
I risultati principali sono stati: nel 57.5% dei casi (198 casi) le Autorità a protezione del consumatore hanno ritenuto che il venditore non abbia fornito sufficienti informazioni che permettessero di verificare la veridicità del claim proclamato. Nel 37% dei casi (128 casi), le Autorità hanno considerato che il claim includesse dichiarazioni vaghe come “environmental-friendly”, sustainable ed eco-friendly. Nel 59% dei casi, le Cpc Authorities hanno rilevato che il venditore non ha fornito alcuna prova a supporto del proprio claim in modo semplice ed accessibile.
D’altro canto, nel 76% dei casi i venditori hanno composto con un linguaggio chiaro i propri claim. Quindi, nel complesso, nel 42% dei casi le Autorità hanno ragione di credere che il claim possa essere falso o ingannevole e potrebbe pertanto costituire una pratica commerciale scorretta.
Quanto è cresciuto il fenomeno del greenwashing?
Se ci si chiede quanto grande sia il problema, si tenga presente che le aziende hanno aumentato esponenzialmente la propria comunicazione sulle performance ambientali dei prodotti. I green claim sono ovunque intorno a noi e spopolano nella pubblicità, come illustrato da Fabio Iraldo, professore di management alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Un’indagine condotta sulla stampa italiana mostra come l’84% di essa sottintenda un elevato rischio di greenwashing, che per il 57% afferisce al settore automotive e dei trasporti.
Il greenwashing crea vantaggi competitivi sul mercato
Un grande problema del greenwashing è che produce piccoli, ma significativi e scorretti, vantaggi competitivi sul mercato.
Secondo il Circular economy action plan del marzo 2020, le due soluzioni avanzate dalla Commissione europea per sconfiggere il greenwashing sono: una corretta informazione e una certificazione affidabile e certa, così che il consumatore possa scegliere sulla base di semplici evidenze scientifiche.
Un consumatore sempre più sensibile ai temi ambientali
La sensibilità del consumatore sul tema sostenibilità è aumentata notevolmente dopo la pandemia, come dimostra la ricerca condotta da Daniele Novello, consulente senior, Consumer insights di Gfk (Growth for knowledge).
I consumatori stanno ripensando e rivedendo il proprio approccio su consumo e priorità: il 33% del campione tiene gli occhi aperti su nuovi prodotti e servizi aperti all’innovazione, con un +7% dopo la pandemia.
Il 30% dichiara di acquistare prodotti e servizi che sposano le proprie convinzioni o valori. Per il 59%, le aziende devono essere responsabili dal punto di vista ambientale e il 36% si sente in colpa quando fa qualcosa che non sia “environmentally-friendly” (+7% negli ultimi 5 anni).
Molte barriere nell’acquistare in modo sostenibile sono connesse all’innovazione. Per il 55%, le alternative green a molti prodotti sono troppo costose, invece, per il 29% non funzionano così bene.
La chiave per incrementare un cambio di abitudini in senso sostenibile, è la formazione dei consumatori. Il 40% infatti, vorrebbe fare di più per l’ambiente, ma non sa come fare e il 44% crede pienamente o alquanto alla pubblicità e al claim sulle etichette.
Pertanto, il consumatore va aiutato ad orientarsi attraverso un’informazione certificata che lo aiuti ad individuare veri e propri obiettivi verdi.
Il viaggio delle aziende verso la sostenibilità
Come ha illustrato Timothy Nixon, amministratore delegato di Signal climate analytics, media partner di Reuters news, misurare le aziende nel viaggio che fanno verso la sostenibilità è complicato, poiché esse stesse ed i loro stakeholder hanno bisogno di sapere consapevolmente, dove si trovano oggi, confrontandosi con i propri competitor, e in quale direzione stanno andando nella creazione del valore.
Sono quattro i principali step che compiono le aziende:
- una prima fase di impegno iniziale incentrata sulla mitigazione del rischio;
- una seconda su una organizzazione sistematica (certificazioni, reporting);
- una terza sulla trasformazione del core business, ovvero, la strategia di sostenibilità guida l’innovazione dei prodotti e dei processi;
- l’ultima fase è quella della differenziazione competitiva, basata sul proprio brand e modello di business.
Secondo Nixon diverse analisi rivelano una discrepanza tra la realtà e ciò che le aziende riportano: “Chi oggi inquina”, afferma Nixon, “è in ritardo sulla definizione degli obiettivi climatici. Solo l’11% dei 250 maggiori responsabili delle emissioni pianifica grandi tagli entro il 2030”.
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