L’Unione europea è pronta a ratificare il Trattato sull’alto mare

Ad oggi, come spiega One Ocean Foundation, solamente l’1 per cento delle acque internazionali è protetto

Grazie alla decisione adottata il 17 giugno dal Consiglio, l’Unione europea è finalmente pronta a ratificare l’Accordo delle Nazioni Unite sulla conservazione e uso sostenibile della biodiversità marina delle aree al di là della giurisdizione nazionale (BBNJ Agreement), anche noto come Trattato sull’alto mare (High Seas Treaty).

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Quali sono i Paesi che hanno già ratificato l’High Seas Treaty

Dopo la conclusione dei negoziati a marzo 2023, l’accordo era stato adottato dall’Assemblea Generale dell’ONU nel mese di giugno dello stesso anno, e poi firmato da Ursula von der Leyen a settembre. Ammontano a novantuno i Paesi che l’hanno firmato, mentre sono sette quelli che l’hanno già ratificato: Belize, Cile, Palau, Micronesia, Principato di Monaco, Repubblica delle Seychelles e Repubblica di Mauritius.

Trattato sull'alto mare, High Seas Treaty
La firma di Ursula von der Leyen

L’obiettivo è arrivare a sessanta, perché il trattato possa entrare in vigore. A quel punto favorirà la governance condivisa delle acque internazionali, che corrispondono al 95 per cento del volume dell’oceano e ricoprono metà della superficie terrestre, così da favorire il ripristino degli ecosistemi e la tutela dell’incredibile varietà di specie che ospitano. Ci si aspetta che possa regolamentare anche questioni spinose come quella del deep sea mining.

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Perché la tutela delle acque internazionali è fondamentale

“L’High Seas Treaty rappresenta un importantissimo passo in avanti per il nostro pianeta e gli ecosistemi marini. Infatti, ad oggi, due terzi degli oceani sono considerati acque internazionali, ma di queste solo l’1 per cento è protetto”, racconta a Canale Energia Giulio Magni, operations director di One Ocean Foundation.

“Questo significa che la maggior parte degli oceani è ad oggi privo di qualsiasi controllo e regolamentazione e quindi potenzialmente soggetto al rischio di sovrasfruttamento e pressioni dovute alle attività umane”.

I pilastri dell’accordo sono cinque e riguardano:

  1. l’accesso alle risorse genetiche marine (preziosissime nell’ambito della ricerca, ma raggiungibili finora solo tramite costose spedizioni);
  2. le valutazioni d’impatto ambientale delle attività umane nell’alto mare;
  3. l’istituzione di nuove aree marine protette;
  4. la condivisione di tecnologie marine;
  5. questioni generali e trasversali, fra cui la definizione dei meccanismi di finanziamento.

“Un passo decisivo per il nostro sistema marino”

“Una regolamentazione all’uso delle risorse e dei servizi ecosistemici marini è fondamentale per perseguire uno sviluppo sostenibile”, prosegue Magni. “La creazione di aree marine regolamentate e protette rappresenta un passo decisivo per ripristinare delle condizioni originali del nostro sistema marino, ma anche per promuovere la consapevolezza di come le risorse marine abbiano uno straordinario valore estetico, etico ma anche economico da dover gestire in maniera sostenibile”, conclude l’esperto.

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Un ulteriore step verso l’obiettivo 30×30

Senza l’High Seas Treaty sarebbe impossibile arrivare a proteggere il 30 per cento degli oceani (e delle terre emerse) entro il 2030, obiettivo noto come 30×30, incluso nel Global Biodiversity Framework approvato alla COP15 sulla biodiversità di Montréal. I mari sono alleati fondamentali anche nella lotta contro i cambiamenti climatici, considerando che assorbono circa il 25 per cento delle emissioni di anidride carbonica e il 90 per cento del calore in eccesso. Infine, offrono sostentamento e protezione alle comunità costiere, molte delle quali costituite da popoli indigeni.

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Nata in provincia di Sondrio, ha studiato a Milano e Londra. Giornalista pubblicista, si occupa di questioni legate alla crisi climatica, all’economia circolare e alla tutela di biodiversità e diritti umani.