PIWI: è l’acronimo di pilzwiderstandfähig, espressione tedesca che identifica la capacità di determinati vitigni di resistere alle principali malattie fungine. “Si tratta di vitigni che, nell’ambito della loro attività metabolica, riescono a produrre particolari sostanze in grado di bloccare lo sviluppo del micelio del fungo stesso”.
A spiegarlo è Marco Stefanini, presidente dell’associazione PIWI Italia – formalmente costituita il 12 gennaio 2024 – e responsabile dell’Unità di miglioramento genetico della vite presso il Centro di ricerca della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige. “Sono nati dopo l’arrivo in Europa dell’oidio, della fillossera e della peronospora, minacce provenienti dalle Americhe, nel XIX secolo”.
La nascita delle varietà PIWI
Incrociando le più resistenti viti americane con quelle europee (Vitis vinifera), nacquero dapprima i cosiddetti “ibridi produttori diretti”. All’impiego di questi incroci, tuttavia, si preferì l’utilizzo di portainnesti di viti americane, sui quali innestare marze di viti europee, da difendere con apposite misure di prevenzione. I ricercatori non si arresero e, sfruttando la tecnica del reincrocio, arrivarono a ottenere varietà che oggi vantano oltre il 90 per cento del genoma della Vitis vinifera: i vitigni PIWI.
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L’impatto ambientale della viticoltura
La loro diffusione potrebbe contribuire significativamente a ridurre l’impatto ambientale della viticoltura che, nonostante occupi solo il 3 per cento della superficie agricola utilizzata nell’Unione europea, richiede ancora il 65 per cento dei fungicidi impiegati in agricoltura (68mila tonnellate l’anno). Indubbiamente, negli anni, sono stati compiuti molti passi avanti che hanno portato all’espansione delle aziende biologiche.
Molte realtà, non a caso, si stanno interessando anche ai vitigni PIWI, che si prestano bene anche a sperimentazioni legate a vendemmia tardiva e appassimento. È il caso di alcuni produttori valtellinesi: l’ambiente alpino, caratterizzato da forti pendenze ed escursioni termiche, “guarda con favore ai vitigni resistenti, quasi a sottolineare quanto resistenza e resilienza appartengano, in un certo senso, al DNA della viticoltura coraggiosa ed estrema”, spiega l’Associazione italiana sommelier (AIS).
L’adattamento ai cambiamenti climatici
“I PIWI sono potenzialmente in grado di ridurre del 70 per cento i trattamenti che la viticoltura normalmente richiede”, prosegue Marco Stefanini. E parliamo di trattamenti che richiedono generalmente l’uso di trattori alimentati a gasolio, anch’essi responsabili di emissioni nocive. “C’è poi un altro aspetto che, a mio parere, non viene sottolineato abbastanza: le nuove varietà possono essere sviluppate anche per adattarsi meglio alle nuove condizioni climatiche, ricercando sinergie genotipo-ambiente molto più adeguate”. Si sa, l’aumento delle temperature medie globali, dei periodi siccitosi e dei fenomeni meteorologici estremi come i nubifragi, rappresenta una grave minaccia per la produzione vitivinicola mondiale: avere l’opportunità di coltivare viti maggiormente adattabili potrebbe davvero fare la differenza.
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Il quadro normativo e gli ostacoli da superare
Perché, allora, l’uso delle varietà resistenti nei vigneti non è stato autorizzato a livello nazionale? Soltanto il Veneto, il Trentino-Alto Adige, la Lombardia, il Friuli-Venezia Giulia, il Piemonte, l’Emilia-Romagna, le Marche, l’Abruzzo, la Campania e il Lazio hanno autorizzato i viticoltori a piantare le varietà PIWI, che possono essere impiegate solo nei vini generici o IGT, anche se in Europa è possibile inserirle nelle DOC dal dicembre 2021.
“Sicuramente, i concetti di cui abbiamo parlato non sono ancora di dominio culturale comune”, dice Stefanini. “D’altra parte, per molti è impossibile pensare che una varietà tradizionale, nel giro di un decennio, non potrà più essere coltivata in un determinato ambiente: bisognerebbe invece abbandonare l’idea che il rapporto storico fra vitigno e terroir sia indissolubile, proprio perché uno dei fattori del terroir, ovvero il clima, è in fase di cambiamento. Infine, c’è il timore che il ricorso alle nuove varietà possa ridimensionare il ruolo dell’enologia”.
L’enologia è la scienza che studia la trasformazione dell’uva in vino: l’enologo è il professionista che supervisiona ogni fase del processo produttivo, assicurandosi che il prodotto finale sia pronto per essere messo in commercio, ricorrendo se necessario a interventi correttivi. Una pratica, quest’ultima, che tende a essere minimizzata nella produzione dei cosiddetti “vini naturali”.
Gli obiettivi di PIWI Italia
Fra gli obiettivi di PIWI Italia, c’è proprio quello di sensibilizzare gli addetti ai lavori e l’opinione pubblica su questi temi. L’idea è quella di contribuire all’aggiornamento del Registro nazionale delle varietà di vite che, attualmente, include solo 36 varietà resistenti (fra cui Solaris e Souvignier Gris). L’associazione, che ha sede presso la Fondazione Mach e conta già oltre 250 produttori affiliati, terrà la sua prima assemblea in primavera. Il vicepresidente è Riccardo Velasco, direttore del Centro di ricerca in viticoltura ed enologia (CREA-VE) di Conegliano, mentre i soci fondatori sono i presidenti delle associazioni PIWI regionali oggi esistenti.
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“L’organizzazione da cui sono nate tutte le altre ha avuto origine diversi anni fa in Svizzera e si è poi diffusa in Europa, in qualità di PIWI International, con l’obiettivo di riunire i viticoltori bisognosi di un sostegno e desiderosi di promuovere lo scambio di conoscenze. L’obiettivo è mettere in luce i vantaggi che questi vitigni possono portare all’agricoltura e alla società”, conclude Stefanini. Dobbiamo cominciare a guardare ai PIWI senza pregiudizi, fiduciosi che possano rappresentare una delle risposte alle esigenze attuali della viticoltura.
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