Un gruppo di ricercatori italiani ha ricalcolato l’impatto climalterante delle emissioni di metano generate dal settore zootecnico nel nostro Paese, scoprendo che è minore di quanto si pensasse. Per farlo ha utilizzato il metodo descritto in uno studio guidato dall’Università di Oxford e pubblicato su Nature nel 2018. Un metodo che tiene conto della permanenza delle sostanze inquinanti nell’atmosfera: se un gas ha vita breve, come il metano, il suo contributo al riscaldamento globale non è rilevante se le emissioni restano costanti nel tempo. E addirittura può negativizzarsi se le stesse diminuiscono.
I dati relativi al periodo 2010-2020
I ricercatori italiani hanno riesaminato i dati pubblicati dall’Ispra fra il 1990 e il 2020, applicando le nuove metriche a tutte le filiere zootecniche del Paese. Ad eccezione dell’allevamento delle bufale, in tutti gli altri casi i valori relativi alle emissioni di metano sono risultati inferiori rispetto alle stime precedenti. Nel periodo 2010-2020, tenendo conto anche del protossido di azoto, il contributo delle filiere sembra essere addirittura negativo (-49 milioni di tonnellate di CO2 equivalente).
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L’impatto del settore a livello globale
È senz’altro un dato positivo che, però, non dev’essere visto come un invito a ridurre l’impegno, bensì come uno stimolo a mitigare ancor di più l’impatto delle attività umane. Come riporta il WWF, anche se a partire dagli anni Novanta le emissioni degli allevamenti sono diminuite (con una riduzione del 20 per cento in Europa nel 2018), ancora oggi a livello europeo rappresentano oltre il 60 per cento del totale delle emissioni del comparto agricolo. Il modo con cui produciamo e consumiamo cibo in tutto il mondo è da solo responsabile dell’80 per cento della perdita di specie e habitat a livello globale.
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