moda sostenibile Fashion Revolution Week
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Cresce la consapevolezza dei consumatori di tutto il mondo su ciò che indossiamo sia dal punto di vista della sostenibilità ambientale, che sociale. Infatti, uno dei messaggi, o per meglio dire, dei quesiti chiave della Fashion Revolution Week, che si tiene questa settimana dal 18 al 24 aprile è #WhoMadeMyClothes #WhatsInMyClothes.

Come nasce il Movimento

La Fashion Revolution Week ha luogo ogni anno in concomitanza del triste anniversario del 24 aprile 2013, quando a Rana Plaza in Bangladesh, crollò una fabbrica sopra 1134 persone, uccidendole e lasciandone ferite circa 2.500. Giovani donne che cucivano e lavoravano senza alcuna tutela per diversi brand. Da questo momento in poi, c’è stato uno spartiacque che ha messo in luce lo sfruttamento che si cela nell’industria della moda, soprattutto dietro al fast fashion.

Dunque, durante questa settimana, attraverso manifestazioni, eventi social e in presenza, a livello globale vengono ricordate queste vite spezzate e si chiede che nessuno debba più morire per la moda.

I suoi obiettivi

Gli obiettivi del movimento no-profit globale Fashion Revolution, tra i più grandi al mondo, rappresentato da The Fashion Revolution Foundation e Fashion Revolution Cic con gruppi in più di 100 paesi nel mondo, sono molteplici e tra di essi:

  • la fine dello sfruttamento umano e ambientale nell’industria globale della moda;
  • condizioni di lavoro sicure e dignitose e salari minimi per tutte le persone nella catena di approvvigionamento;
  • un’industria globale della moda che lavori per conservare risorse preziose e rigenerare gli ecosistemi;
  • una cultura della trasparenza e della responsabilità in tutta la catena del valore;
  • la fine della cultura dell’usa e getta e il passaggio ad un sistema in cui i materiali sono usati molto più a lungo e nulla va sprecato;
  • il patrimonio, l’artigianato e la saggezza locale sono riconosciuti e valorizzati.

Il movimento agisce per raggiungere un cambiamento culturale, dell’industria e a livello politico. 

Guidare il cambiamento culturale

Per quanto concerne il primo, tra gli obiettivi principali c’è sicuramente quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e mobilitare le comunità, riunendo le persone in tutto il mondo per intraprendere un’azione collettiva. Inoltre, aiutare le persone a capire l’impatto dei loro vestiti e come possono influenzare l’industria globale della moda, anche collaborando con artisti e attivisti per riformulare le narrazioni incorporate nella cultura della moda. Infine, creare strumenti che permettano alle persone di usare la loro voce e fare cambiamenti nella loro vita personale e nel loro lavoro. 

Come imprimere un cambiamento nell’industria della moda

Il movimento può sicuramente condurre una ricerca che faccia luce sugli impatti sociali e ambientali dell’industria globale della moda, evidenziare dove essa si sta muovendo troppo lentamente e spingere per un cambiamento più rapido, nonchè influenzare i marchi e i rivenditori a cambiare attraverso la pressione dei consumatori. Infine, incentivare e promuovere la trasparenza e la responsabilità in tutta la catena di fornitura.

L’impegno a livello politico

A livello politico, il movimento vuole promuovere dei cambiamenti e influenzare i governi, affinché svolgano un ruolo più attivo nel far rispettare meglio le leggi e regolare l’industria.

Ed è proprio su questo versante che ci si sta muovendo anche a livello europeo, come testimonia la posizione dell’eurodeputata co-portavoce nazionale di Europa Verde, Eleonora Evi che afferma in merito: “Se i consumatori sapessero che per produrre una T-shirt occorrono quasi tremila litri di acqua si avrebbe una maggiore consapevolezza dell’enorme impronta ecologica del settore della moda. Quando si parla di ambiente e di crisi climatica, prosegue, spesso si ignora che la produzione tessile è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei processi a cui i prodotti sono sottoposti, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilascia ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei nostri mari”. 

“Ma l’industria della moda ha un impatto gigantesco anche sui diritti umani in tutto il mondo, come ci ricorda il triste anniversario del crollo del Rana Plaza del 2013, che provocò la morte di 1134 lavoratori e lavoratrici che, in condizioni totalmente precarie, producevano abbigliamento per i principali marchi di fast fashion globali. Per questo motivo, puntualizza Evi, in occasione della Fashion Revolution Week, vogliamo richiamare l’attenzione delle istituzioni nazionali ed europee sulle terribili condizioni di lavoro di milioni di persone sottopagate e sfruttate e sul depauperamento delle risorse naturali a causa di un modello di business non più sostenibile, che premia la crescita e il profitto. Al Parlamento Ue abbiamo chiesto normative stringenti, affinché si pongano obiettivi vincolanti di riduzione per il consumo tessile e si agevoli l’affermazione di un modello circolare. Ma è importante che i cambiamenti partano dal basso e che cittadini sappiano qual è il reale impatto sull’ambiente e sui diritti dei vestiti che acquistiamo, così da poter scegliere consapevolmente un modello che si affranchi dalle logiche di business dominanti, assegnando un ruolo centrale all’ambiente e privilegiando le pratiche del riuso e del riciclo. In questo modo si riuscirebbe a fermare la tendenza per cui ogni anno dei 70 milioni di tonnellate di abiti usati buttati il 48% è ancora perfettamente utilizzabile”, conclude l’eurodeputata.

Per prendere visione degli eventi e manifestazioni a livello globale e nazionale si può consultare il sito della Fashion Revolution Week. 


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