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Dei 112 principali siti di trattamento della FORSU (Frazione Organica del Rifiuto Solido Urbano), solo 7 Regioni hanno impianti adeguati a valorizzare la raccolta differenziata della frazione organica. Addirittura, in cinque Regioni (compreso il Lazio) nessun impianto soddisfa i requisiti minimi a questo scopo. E’ quanto emerge da uno studio commissionato da Biorepack (Consorzio nazionale per il riciclo plastica biodegradabile) all’Università di Tor Vergata.
I risultati evidenziano due principali categorie di ostacoli per trasformare la frazione dei rifiuti organici in compost di qualità: da un lato, una percentuale troppo elevata di materiale non compostabile nell’umido domestico e, dall’altro, impianti ancora non adeguatamente efficienti.
L’obiettivo principale di Biorepack è stato quello di verificare la compatibilità delle bioplastiche compostabili all’interno degli impianti di trattamento dei rifiuti organici. Da questo punto di vista, le bioplastiche hanno ampiamente superato la sufficienza. L’analisi ha dimostrato infatti che, all’interno degli impianti dedicati, il comportamento dei rifiuti in bioplastica compostabile è allineato a quello dell’umido domestico. Secondo i ricercatori di Torvergata “la loro eliminazione dal processo di trattamento è una mera conseguenza delle inefficienze di tali impianti”.
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Le evidenze dello studio hanno confermato che le bioplastiche non presentano problemi gestionali all’intero degli impianti ad alta efficienza. “In tali contesti, le bioplastiche rappresentano una indubbia risorsa, in quanto contribuiscono ad aumentare la quantità di materiale avviabile a riciclo, diminuendo allo stesso tempo gli scarti di processo”, si legge nella ricerca. Il problema nasce piuttosto quando gli impianti hanno una bassa efficienza degradativa: le bioplastiche vengono scartate insieme ad altre matrici biodegradabili come gusci di frutta, uova o ossa animali.
Il metodo e il risultato
Come si è proceduto dunque? Intanto, è stato preso in esame il livello di performance dei principali 112 impianti di trattamento in Italia, in cui si gestisce il 96% dei rifiuti organici, e cioè 4,8 milioni di tonnellate. In secondo luogo, gli impianti sono stati valutati in base a tre “scenari di efficienza”, a seconda della loro capacità di eliminare dal processo materiali non compostabili – come plastiche tradizionali e metalli – ma includendo nel trattamento una certa quantità di umido domestico e bioplastiche compostabili. Alla base del criterio di selezione, un concetto prettamente economico: produrre una quantità di scarti non superiore alla soglia del 15% del rifiuto trattato. In caso contrario, il processo risulterebbe economicamente non sostenibile, generando un conto economico in perdita.
Dal punto di vista del materiale trattato a livello nazionale, i risultati mostrano che, a fronte di un valore pari a 7,1% del materiale non compostabile in entrata, il tasso medio di scarto prodotto dagli impianti è di 21,9%: ben lontano dal target di 15%.
Più granulare il quadro a livello di Regioni: sotto la soglia del 15% si collocano Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Lombardia. Lo scenario principale vede una percentuale di scarti non superiore al 20% nei sistemi di raccolta di Puglia, Liguria e Piemonte. Le restanti regioni superano il 20%.
Relativamente agli impianti, su un campione di 112 strutture, solo ventidue risultano adeguate a mantenere gli scarti sotto il 10%; nove impianti tra il 10 e il 15%; quattordici impianti tra il 15 e il 20%. Per i restanti sessantasette impianti, il tasso di scarto è superiore al 20%.
In generale, cinque Regioni sono dotate di strutture che non riescono a garantire un tasso di scarto al di sotto del 20%.
Call to action per migliorare il riciclo organico
Lo studio individua una serie di proposte ed azioni per superare gli ostacoli, tra cui:
- Ridurre la presenza dei materiali non compostabili all’interno dell’umido domestico. Diventano importanti le iniziative per sensibilizzare e informare la cittadinanza.
- Investire su sistemi di etichettatura chiari e facilmente comprensibili.
- Applicare tariffe variabili di ritiro e trattamento, legate alla minore o maggior presenza di materiali non compostabili nella raccolta.
- Ottimizzare, all’interno degli impianti, i processi di separazione dei rifiuti non compostabili, evitando di separare i materiali a inizio processo, vista la difficoltà di asporto dei materiali non compostabili dalla massa umida, col rischio di rimuovere anche le parti buone.
- Rispettare le tempistiche di trattamento organico per poter produrre un compost di qualità. Negli impianti a bassa efficienza spesso si utilizzano tempi troppo brevi.
- Attenersi alle indicazioni italiane e comunitarie secondo cui, per gli impianti solo aerobici, la durata minima non può essere inferiore a 9-10 settimane; mentre, per gli impianti integrati, la durata è stabilita a 30-45 giorni.
- Fare in modo che, nei singoli Comuni, i gestori di rifiuti ammettano alla raccolta della FORSU tutte le matrici biodegradabili.
Secondo Francesco Lombardi, direttore del Dipartimento ingegneria civile e informatica di Tor Vergata, è importante includere nella raccolta “noccioli di frutta, gusci di uova e di molluschi, sfalci e potature nonché i manufatti compostabili, che la ricerca conferma essere assolutamente trattabili negli impianti di compostaggio al pari di qualsiasi rifiuto organico. Va invece evitato di selezionare solo quelle matrici ritenute più facili da trattare per produrre energia nella fase anaerobica del processo”.
Perché questo aspetto è così importante? Per produrre sia energia sia compost, l’obiettivo finale è di valorizzare al massimo la FORSU, in modo da chiudere il ciclo del carbonio, riportare fertilità nei suoli agricoli e limitare la quantità di rifiuti in discarica.
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