Un’italiana per il progetto Fire&Ice sulle coste del Pacifico

La spedizione oceanografica ricostruisce l’eruzione di uno dei vulcani più pericolosi del Cile

1 Credits Alex Ingle Schmidt Ocean Institute
Nave da ricerca Falkor_Foto Schmidt Ocean Institute

2 maggio 2008: il vulcano Chaitén erutta senza preavviso sputando cenere a 30 chilometri di distanza. Dopo sedici anni, una spedizione scientifica internazionale, condotta al largo delle coste della Patagonia cilena, rivela gli impatti dei vulcani costieri sull’ambiente marino.

Coordinato da Sebastian Watt, Università di Birmingham, il progetto Fire&Ice: Volcanic and glacial interactions ha visto la partecipazione di esperti provenienti dalle università di sei paesi: Regno Unito, Cile, Italia, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Malta.

A guidare il team di geofisica è l’Italiana Giulia Matilde Ferrante, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, OGS.

“Utilizzando la nave da ricerca Falkor (too), di proprietà dello Schmidt Ocean Institute, è stato possibile svolgere analisi approfondite sui sedimenti vulcanici accumulatisi sul fondale marino, non solo in tempi remoti, ma anche recenti” ha spiegato la ricercatrice.

I giorni dell’eruzione

L’eruzione sorprende i geologi di tutto il mondo: si presumeva che il vulcano fosse estinto poiché non mostrava segni di attività da 9000 anni.

Durante l’eruzione, la cenere del vulcano ricopre il paesaggio. I flussi piroclastici si spostano sul versante della montagna e i venti spingono i materiali a est. Nei giorni successivi, forti piogge innescano devastanti colate di fango vulcanico, i lahars, che finiscono nei fiordi e nell’Oceano Pacifico. La città di Chaitén viene evacuata, mentre il vulcano trasforma il paesaggio circostante.

I detriti rimasti sulla terraferma sono pochi e quindi scompaiono dall’archivio terrestre. Ma gli scienziati sospettano che dati più precisi si possano trovare proprio nei fiordi e nei fondali marini: è facile ricostruire gli impatti terrestri di un’eruzione, ma non si sa molto circa l’impatto che le colate detritiche hanno sull’ambiente marino. E’ da questi presupposti che parte il progetto Fire&Ice, conclusosi di recente.

La metodologia adottata

Sulla terraferma, i depositi si erodono rapidamente. Ma in ambienti più tranquilli, come laghi o fondali marini, gli strati dei detriti vulcanici vengono sepolti da nuovi sedimenti. Ogni strato vulcanico conserva la documentazione di un’eruzione passata. Per comprendere l’intero spettro del comportamento vulcanico è quindi essenziale raccogliere dati granulari ad alta risoluzione sull’attività passata dei vulcani.

Durante la spedizione, sono stati raccolti numerosi campioni di sedimenti in un’area compresa tra il Mare della Patagonia settentrionale e la Fossa di Atacama. Per la mappatura dei fondali è stato utilizzato un vibrocarotiere montato a bordo del sottomarino a comando remoto (ROV, Remotely Operated Vehicle) SuBastian, dello Schmidt Ocean Institute.

2 Credits ROV SuBastian Schmidt Ocean Institute
Sottomarino SuBastian a comando remoto_Foto Schmidt Ocean Institute

Tre settimane sulla Falkor

Nel 2021, lo Schmidt Ocean Institute aveva annunciato di aver acquistato una nuova nave da ricerca, il research vessel Falkor (too), per ampliare il programma scientifico e la capacità di esplorare l’oceano.

A bordo di quella stessa nave, Sebastian Watt ha da poco coordinato l’intero team internazionale per tre settimane, allo scopo di studiare gli effetti subacquei dell’eruzione.  “Le osservazioni effettuate consentiranno di capire in che modo i vulcani costieri impattano gli ambienti marini e le infrastrutture antropiche, come quelle legate alla pesca e alle telecomunicazioni”, ha commentato il capo della missione.

Le stratificazioni di sedimento emerse dalle raccolte forniscono una testimonianza diretta dell’attività geologica e paleo-oceanica della regione. Inoltre, le ceneri e i detriti vulcanici permettono una ricostruzione più dettagliata e sul lungo periodo dell’attività vulcanica.

Come sottolineato dalla nostra ricercatrice Giulia Matilde Ferrante: “Siamo riusciti a rilevare la presenza dei detriti vulcanici dell’ultima eruzione del Chaitén fino a 25 chilometri di distanza dalla caldera. Questo notevole risultato offre una nuova prospettiva sull’intensità delle correnti marine al largo delle coste cilene e sulle modalità di spostamento dei sedimenti vulcanici che, in origine, vengono trasportati in mare dai corsi d’acqua. Inoltre, unitamente ai dati ricavati da nuove mappature del fondale oceanico, le rilevazioni effettuate durante la campagna ci permettono di comprendere meglio i rischi e le dinamiche connesse alle manifestazioni vulcaniche nel Sud del Cile”.

4 Matilde Ferrante Credits Alex Ingle Schmidt Ocean Institute
Matilde Ferrante_Foto Alex Ingle_Schmidt Ocean Institute

E parlando di rischi, gli scienziati cileni coinvolti nel progetto, in collaborazione con il Servizio Nazionale Geologico e Minerario cileno hanno lavorato a stretto contatto con le comunità locali di Chaitén per sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi geologici e sullo stato dinamico dell’ambiente marino.

Tra i risultati più rilevanti, la campagna oceanografica ha prodotto una mappatura ad alta risoluzione di oltre 2700 chilometri quadrati del Mare di Patagonia settentrionale. La restituzione mostra un fondale marino fortemente segnato da dinamiche glaciali passate. Inoltre, davanti alla città di Chaitén è stata osservata un’area di mega-dune sottomarine estese per circa 10 chilometri quadrati.


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Consulente e ricercatrice freelance in ambito energetico e ambientale, ha vissuto a lungo in Europa e lavorato sui mercati delle commodity energetiche. Si è occupata di campagne di advocacy sulle emissioni climalteranti dell'industria O&G. E' appassionata di questioni legate a energia, ambiente e sostenibilità.