I mari sono vuoti, gli allarmismi si moltiplicano e il messaggio è lo stesso da anni: in alcune zone del nostro Paese e del nostro continente non si pesca quasi più niente
Chi non ricorda la nuova politica comune della pesca promossa dalla Commissione UE ed entrata in vigore nel 2015 per tutelare tutte le specie a rischio? Questa ha comportato l’iniziale sparizione dalle tavole italiane di seppioline, calamaretti “spillo”, telline, cannolicchi (cappelunghe), vongole volgari, bianchetti e latterini, tra le più pregiate golosità della tradizione ittica della nostra cultura gastronomica marinara. Duro colpo, quindi, per il “business” della nostra pesca, già logoro e messo in difficoltà dalle varie emergenze. Cosa ci ha condotto a questa situazione?
È presto detto: l’attività di prelievo delle risorse marine (in questo caso di pesci, crostacei e molluschi) si delinea come sfruttamento di una risorsa “rinnovabile”, cioè in grado di “ripristinarsi” nel tempo purché ve ne siano le condizioni: la quantità prelevata non deve intaccare quella rimasta, in modo da garantire la riproduzione della specie, e non bisogna esporla al rischio di estinzione. In pratica, si tratta di pescare annualmente un numero di “individui” simile a quello dei nuovi nati, così da avere un sostanziale pareggio. Per ottenere ciò è necessario che una quantità sufficiente di “adulti” possa riprodursi, altrimenti non vi saranno nuovi nati sufficienti per rimpiazzare le perdite.
Bisogna dire che ogni tipo di sfruttamento, anche minimo, produce un disturbo sulla popolazione, in questo caso marina, alterandone gli equilibri. Con una pesca forsennata dedita al profitto e con la sempre maggiore richiesta sul mercato di un prodotto di pregio, intere specie sono a rischio di estinzione. E questa situazione provoca, a detta di numerosi studiosi, anche seri problemi di equilibrio nell’ecosistema.
Inoltre, nessuno è riuscito a stabilire né a prevedere il livello di “sfruttamento sostenibile” a vantaggio dell’intero “sistema-pesca”: interessi economici, indotto degli investimenti del settore, forza lavoro e, fattore più importante, l’ ecosistema faunistico marino.
Da stime di mercato, ogni anno si catturano nel mondo quasi 80 milioni di tonnellate di pesci, molluschi e crostacei. Una quantità enorme che nell’ultimo decennio si è raggiunta con sempre maggiori difficoltà e andando a intaccare la popolazione non ancora adulta (sottomisura).
Da stime di mercato, ogni anno si catturano nel mondo quasi 80 milioni di tonnellate di pesci, molluschi e crostacei. Una quantità enorme che nell’ultimo decennio si è raggiunta con sempre maggiori difficoltà e andando a intaccare la popolazione non ancora adulta (sottomisura).
Oggi ci troviamo in una situazione grave in cui appelli e allarmismi sono opposti gli uni agli altri: da un lato, scienziati e ambientalisti arrivano a bandire intere liste di prodotti da evitare, perché derivanti da specie a elevato rischio di estinzione. Dall’ altro, l’industria ittica e i pescatori richiedono regole meno restrittive, così da riuscire a mantenere un adeguato livello di catture, di occupazione e di guadagno.
Dovremo muoverci tutti verso un’unica direzione e prendere decisioni importanti, conformi a una serie di regole fisse riconducibili a poche e semplici norme:
- solo pesce maturo;
- no specie in pericolo;
- solo pescherecci registrati e autorizzati (dunque non abusivi);
- pesca in mari e oceani con stock non sovra sfruttati;
- metodi di pesca selettivi.
Tutto ciò renderebbe possibile uno sfruttamento della risorsa senza mettere a rischio la sopravvivenza di nessuna specie. Il patrimonio ittico va tutelato nella sua biodiversità, per noi tutti oggi e per le generazioni future. Occorre assolutamente condividere equamente un bene che offre ancora le sue risorse, al di là di ogni fazione, piuttosto che tentare di accaparrarsi, in un futuro oramai prossimo, le ultime briciole rimaste.
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