La minaccia di un’invasione aliena ricorre spesso nei racconti di fantascienza. Non c’è nulla di fantascientifico, però, nell’ultimo rapporto della Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (conosciuta con l’acronimo inglese IPBES) sulle specie aliene. Ce ne sono più di 37mila nel mondo, 3.500 delle quali sono invasive, stando allo studio realizzato in oltre quattro anni da 86 esperti di 49 Paesi, pubblicato il 4 settembre dopo l’approvazione da parte dei 143 Stati membri dell’IPBES.
Cosa sono le specie aliene invasive
“Le specie aliene sono quelle specie (animali, vegetali, fungine, eccetera) che, prevalentemente a causa delle attività umane, si introducono in regioni che si trovano al di fuori del loro areale naturale”, spiega Lorenzo Ciccarese, rappresentante nazionale dell’IBPES e responsabile dell’Area per la conservazione delle specie e degli habitat dell’ISPRA.
“Le specie aliene ‘invasive’ invece, una volta introdotte in una nuova regione, provocano danni anche ai servizi ecosistemici, cioè ai benefici che quell’ecosistema fornisce alle attività umane. Possono danneggiare la produzione alimentare o quella di legname, per esempio, ma anche le infrastrutture”.
🦀 Le #speciealiene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni degli ultimi secoli e causano una perdita economica di 423 miliardi di dollari all’anno.
Lo conferma il Rapporto @ipbes #InvasiveAlienSpecies , cui ha collaborato Ispra.Scopri di più: https://t.co/mDHKZb6CKE pic.twitter.com/C2t5Y66mYx
— ISPRA – Ist. Sup. Protezione e Ricerca Ambientale (@ISPRA_Press) September 4, 2023
I danni economici e i rischi per le popolazioni indigene
Fra le specie aliene, risulta invasivo:
- il 22 per cento degli invertebrati;
- il 14 per cento dei vertebrati;
- l’11 per cento dei microbi;
- il 6 per cento delle piante.
I danni economici provocati dalla loro diffusione ammontano a più di 423 miliardi di dollari l’anno. Gli impatti peggiori si registrano nelle Americhe, con il 34 per cento di tutte le segnalazioni; seguono Europa e Asia centrale (31 per cento), Asia Pacifico (25 per cento) e Africa (7 per cento). Più di 2.300 specie aliene invasive si trovano nelle terre sotto la tutela dei popoli indigeni, mettendone a rischio l’identità culturale. Fra le più note, oltre a determinate specie di zanzare, ci sono il giacinto d’acqua (Pontederia crassipes), la lantana (Lantana camara) e il ratto nero (Rattus rattus).
Le cause della “sesta estinzione di massa”
Circa un milione di tutte le specie conosciute a livello globale rischia l’estinzione, secondo il Global Assessment Report IPBES del 2019, che rappresenta una pietra miliare nell’ambito dello studio e della tutela della biodiversità. “Sono cinque i fattori che stanno determinando la cosiddetta ‘sesta estinzione di massa’, fra cui la diffusione delle specie aliene invasive. Gli altri sono la distruzione degli habitat, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, l’inquinamento e i cambiamenti climatici”, prosegue Ciccarese.
Il Global Biodiversity Framework approvato l’anno scorso a Montréal, non a caso, ha fra i suoi obiettivi anche una riduzione del 50 per cento dell’attuale ritmo di diffusione delle specie aliene invasive. “Dato che alcune di esse sono di interesse agrario, è sicuramente un tema complesso. Soprattutto in Paesi come Argentina e Brasile, ma anche Sudafrica, che stanno investendo molto nella produzione alimentare”, puntualizza Ciccarese.
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L’Italia e il caso del granchio blu
Nel nostro Paese sono state identificate oltre 3.500 specie aliene, di cui 3.363 attualmente presenti, stando alla banca dati dell’ISPRA. Molte sono arrivate con merci o mezzi di trasporto. Tra i casi più noti c’è la zanzara tigre (Aedes albopictus), una specie importata dall’Asia che può trasmettere diverse infezioni virali. Altre specie particolarmente dannose sono la testuggine palustre americana (Trachemys scripta), che crea problemi alla testuggine palustre europea (Emys orbicularis), e la cocciniglia del pino marittimo (Matsucoccus feytaudi).
Un altro esempio è il parrocchetto verde, ma anche il famigerato granchio blu che, dalle coste atlantiche del continente americano, sta invadendo i nostri mari. L’idea di promuoverne il consumo alimentare, promossa dal Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, “può alleggerire la pressione su altre specie ittiche, ma paradossalmente può anche incentivare l’ulteriore diffusione di questi granchi, senza portare all’eradicazione”, avverte l’esperto dell’ISPRA.
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Arpa #Veneto, in collaborazione con Ispra, sta monitorando la presenza del #GranchioBlu nelle lagune venete.
Per saperne di più🔎https://t.co/csgQ3yfNQA pic.twitter.com/rkK7rMg8aC— SNPA (@SNPAmbiente) August 29, 2023
L’importanza delle strategie di prevenzione
Più che sull’eradicazione, in ogni caso, è necessario concentrarsi sulla prevenzione. Dalla corretta gestione delle cosiddette “acque di sentina” al rafforzamento dei controlli portuali e aeroportuali, dalla lotta contro il traffico illegale di animali selvatici all’introduzione di regole più stringenti riguardo all’importazione di piante e fiori, fino alle campagne di sensibilizzazione. I benefici di queste operazioni sono di gran lunga maggiori dei costi.
Un approccio olistico
Per attuare misure di prevenzione davvero efficaci, però, i decisori politici devono tenere conto delle connessioni che legano le varie questioni ambientali. “I cinque fattori scatenanti della perdita di biodiversità cominciano a produrre i loro effetti interdipendenti. A causa dei cambiamenti climatici, ci sono specie aliene invasive che trovano in altre regioni degli habitat più consoni alle loro attività biologiche. È il caso per esempio dell’arrivo di specie, nel Mediterraneo, che sono tipiche dell’ambiente tropicale”, chiarisce Lorenzo Ciccarese. “Anche la distruzione degli habitat per la costruzione di nuove infrastrutture può accelerare la diffusione delle varietà invasive”.
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Tutela della biodiversità, riduzione dell’inquinamento e mitigazione dei cambiamenti climatici sono questioni che devono essere affrontate in maniera olistica, non a compartimenti stagni, guardando contemporaneamente alla transizione energetica, all’economia circolare e all’alimentazione sostenibile. L’obiettivo di studi come quello dell’IPBES e, in generale, della comunità scientifica è proprio quello di fornire ai decisori politici gli elementi necessari per adottare soluzioni trasversali e a lungo termine.
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