L’Italia, a partire dal 1° gennaio 2022, dovrà mettere in pratica una strategia nazionale sul tema della raccolta differenziata del tessile, anticipata di tre anni rispetto alla data del 2025, fissata dall’Unione europea. Oggi, a 6 mesi dalla partenza, si rischia di veder crescere la raccolta di questo tipo di rifiuti senza avere una filiera pronta a smaltirli.
Per far fronte a questa nuova sfida, ci sarà bisogno della partecipazione di tutti gli attori, che già ora hanno un ruolo di primo piano nella parte finale di questa filiera.
Proprio i protagonisti hanno evidenziato possibili soluzioni e criticità, durante il webinar “Raccolta differenziata dei tessili e responsabilità estesa del produttore: a che punto siamo a sei mesi dall’obbligo di raccolta?”, organizzato da E.R.I.C.A, società di cooperative, e Kyoto club.
Il ruolo del sistema cooperativo sociale
Ciò che emerso da più parti, è la necessità di avere uniformità a livello europeo, innanzitutto nella definizione di rifiuto tessile, perché se ogni stato membro fornisce la propria, si avranno dei problemi già a monte nella raccolta.
“Ad esempio, in Olanda attualmente, è aperto il dibattito su cosa sia da ritenere tessile e cosa non lo sia, se si parli di tessile pre-consumo o post-consumo, dice Carmine Guanci, coordinatore della Rete Riuse, in questi casi problematiche e filiere devono essere necessariamente diverse, per poter garantire a tutti la sostenibilità delle stesse”.
In secondo luogo, continua Guanci: “La filiera necessita di una nuova impiantistica, perché in Italia si raccoglie tantissimo, ma se poi si invia all’estero il materiale da riciclare, non ha molto senso. Perciò, va valorizzata al meglio la parte destinata al riciclo, e in questo il legislatore deve essere di supporto, altrimenti queste quantità esportate saranno destinate ad aumentare, poiché non abbiamo abbastanza impianti. Inoltre, siamo dipendenti dai mercati esteri che riciclano tutta la parte di rifiuto tessile che non può essere avviata al riutilizzo o smaltita in Italia”.
Altro aspetto centrale, sempre legato all’uniformità e omogeneità a livello europeo, è quello dei controlli di questo tipo di materiali. Mentre gli altri paesi europei per l’esportazione li hanno meno stringenti, in Italia, in seguito al decreto Ronchi del 1997, vanno sottoposti ad igienizzazione e sanificazione, altrimenti passano automaticamente per rifiuto. I paesi europei invece, non sono tenuti a sottoporli ad alcun trattamento. Oppure ancora, per quanto riguarda i trasporti transfrontalieri degli indumenti usati, l’Italia è obbligata a fare la notifica, mentre questo obbligo non sussiste per i colleghi europei. Ecco che, questo tipo di differenze nella regolazione portano a uno svantaggio competitivo e a una disparità concorrenziale per l’Italia.
Conclude Guanci chiedendo che: venga tenuto in considerazione il fatto che le cooperative sociali in 25 anni hanno acquisito un know-how nella gestione degli abiti usati che va messo a frutto, perché in termini di end of waste, un indumento usato è ovviamente diverso da uno scampolo di produzione, quindi andrà definito nel dettaglio cosa si andrà a raccogliere. Va poi tenuto conto del fatto che, le cooperative sociali generano centinaia di posti di lavoro nel no profit, con una ricaduta positiva sul territorio e per le persone svantaggiate impiegate nel settore. Infine, senza un coordinamento europeo, si rischia di mettere in seria difficoltà tutto il settore che avrà impianti saturi e non saprà dove mandare questi rifiuti.
Anche Stefano Granata, presidente di Confcooperative Federsolidarietà ha sottolineato come le cooperative sociali siano non solo un player di primo piano nella raccolta degli abiti usati, ma anche un comparto capace di fare rete, comunicare con le istituzioni e soprattutto mettere in atto quella che ha definito “sostenibilità integrale”: oramai, non si può più disgiungere la sostenibilità ambientale da quella sociale.
“Rappresentando 6.500 cooperative sociali, il tema ci sta a cuore perché il tessile è il secondo comparto per impatto ambientale in Italia, poi constatiamo che solo nella nostra rete ci sono 39 cooperative su 9 regioni che operano con una innegabile copertura ed impatto occupazionale”.
Granata ribadisce che, stavolta la cooperazione sociale non sarà marginale perché è stata acquisita la competenza, ma bisogna costituire una identità di filiera.
“L’opportunità è reale per il Paese, ma vanno costruite alleanze con il mondo industriale. Questo può essere un business pulito, sostenibile economicamente e socialmente, qui le persone fragili vengono inserite nel lavoro e possono essere riqualificate. Produrre ricchezza sociale ed economica che viene redistribuita sul territorio deve diventare un obbligo”.
L’impegno del Ministero della transizione ecologica
Ilde Gaudiello, Ministero della transizione ecologica, ha raccontato di come stiano stilando una prima bozza di decreto sulla responsabilità estesa del produttore (Epr), ma di come sia necessario raccogliere informazioni sulle buone pratiche esistenti e sui diversi comparti che rientrano nel tessile, che non sono solo relativi all’abbigliamento, ma anche all’arredamento, alla tappezzeria, ai tessuti pregiati e alla biancheria. Di conseguenza, il ministero deve definire uno strumento regolamentare per aiutare i produttori ad organizzare queste filiere, definendo anche le sottocategorie.
“Bisogna mettere a punto processi industriali per l’end of waste del tessuto, ma a seconda della diversa tipologia di cui si parla, potrebbero servire più definizioni di end of waste. Siamo perciò in una fase di studio, finalizzata a raccogliere più informazioni possibili e successivamente redigere qualcosa di consono ed adeguato per far fronte alla sfida che ci aspetta”, afferma Gaudiello.
E’ intervenuta anche l’On. Rossella Muroni, vicepresidente Commissione ambiente della Camera dei deputati, che conosce bene il tema dei rifiuti tessili avendolo seguito per tre anni da diverse postazioni, la quale dichiara: ”In genere si procrastinano direttive su alcune cose, come la plastica monouso, e poi si accelera il recepimento di una direttiva che deve necessariamente essere fatto a modo, altrimenti si rischia di colpire un sistema che è sopravvissuto in mezzo a tante problematicità. Ho presentato un emendamento per aiutare questo settore che ha una sua peculiare fragilità e si trova in difficoltà dopo la pandemia. Mi metto a disposizione per un’audizione sul tema in Commissione parlamentare ambiente, per fare un’operazione utile di lavoro preventivo e per fare in modo che questa accelerazione non diventi un boomerang. E’ una realtà su cui dobbiamo lavorare tutti insieme”.
Le aziende dell’economia circolare
Franco Bonesso, rappresentante di Anci nazionale, testimonia che per i comuni l’obbligo di raccolta del rifiuto tessile come rifiuto urbano già sussisteva. Nella provincia di Treviso, dove opera, di questa raccolta se ne occupava la Caritas, sostanzialmente ora la municipalità ha implementato questo modello insieme alle cooperative sociali, e inserito questa raccolta nel contesto dei rifiuti urbani. Per il prossimo futuro: ”Bisogna mantenere l’equilibrio esistente e non far mancare l’associazionismo sociale, altrimenti il sistema va in crisi”, afferma Bonesso. Inoltre, come Anci siamo favorevoli ad ogni tipo di Epr, insomma al principio del “chi inquina paga”, che è meglio attuare all’origine piuttosto che alla fine”. Bonesso affronta anche il tema dei cassonetti abusivi e di quanto sia difficile farli rimuovere, confermando che i comuni devono insistere su questo, poiché il sistema deve essere trasparente il più possibile. Inoltre, l’abusivismo genera rifiuti non controllati che finiscono chissà dove, con conseguenze negative sia per l’ambiente che per il sociale.
Andrea Fluttero di Unirau, associazione del mondo Unicircular, rappresenta una filiera nata negli ultimi decenni, in un contesto in cui non esisteva l’obbligo della differenziata dei rifiuti tessili né si parlava di Epr.
La questione che pone Fruttero è: ”Da dove partiamo, cosa sta in piedi oggi autonomamente, quanto raccogliamo e cosa succede a quello che raccogliamo? A gennaio 2022, non dobbiamo per forza avere in piedi un sistema di Epr e un target di obiettivi da raggiungere, poiché non credo ci sarà una esplosione”. L’Europa in parte ha deciso, ma ancora sta decidendo, solo in autunno lancerà la strategia europea per il tessile. Però, la necessità è quella di definire il perimetro all’interno del quale operare: ad esempio, parliamo di “tessile abbigliamento” o di “tessile biancheria”?
Fluttero riafferma il ruolo fondamentale delle cooperative, dal momento che la modalità di raccolta avviene manualmente e non può essere automatizzata, poiché il materiale dei cassonetti è destinato ad essere valorizzato. Saranno quindi un anello indispensabile nel futuro disegno del modello.
Altresì, sostiene che il riuso non abbia la particolare esigenza di essere spinto dal legislatore, dato che si sono diffuse una serie di modalità per attuarlo, come i negozi dell’usato e le donazioni che hanno una loro specifica normativa nella “legge Gadda”, che chiarisce la differenza tra raccolta differenziata e dono.
“Il problema è piuttosto la filiera per come è caratterizzata oggi, dichiara: cosa fare del 50/60% del materiale non riutilizzabile raccolto dai cassonetti degli abiti usati? Se lasciamo che le selezioni avvengano all’estero non sarà gestito in modo evoluto. Bisogna fare in modo di trattenere questo 60% non riutilizzabile in Europa e investire in ricerca e innovazione, che le nostre aziende già possiedono, ad esempio nello smontare il poliestere e nel riciclare la lana. Grazie a questa expertise, la sfida tecnologica italiana è perfettamente affrontabile. Questa percentuale crescerà ulteriormente ed è meglio trasformarla in materie prime seconde e migliorare l’immesso sul mercato”.
Elisabetta Perrotta di Fise Unicircular, associazione che rappresenta le aziende dell’economia circolare, mette in rilievo il problema della comunicazione, nel senso della difficoltà che si ha spesso con i cittadini nel far sapere loro dove vadano a finire i capi donati al centro di raccolta.
Come già sollevato in precedenza, rimane il nodo sulla definizione di cosa sia o meno un rifiuto tessile e sulla Epr, formulata per incentivare la riduzione dell’impatto dei rifiuti tessili già alla loro origine, attraverso l’imposizione ai produttori di una responsabilità finanziaria e operativa della gestione del ciclo di vita del prodotto, quando questo diventa rifiuto.
La Francia ha una normativa Epr dal 2007, che prevede che ogni anno i produttori del fashion dichiarino la quantità di materiale che hanno immesso sul mercato, pagando un contributo per la gestione del fine vita, che va da 0,01 euro a 2 euro. Anche l’Olanda vuole introdurre questa quota obbligatoria e fissare degli obiettivi per aumentare l’utilizzo dei materiali riciclati e trattenere almeno il 10% degli indumenti destinati al riutilizzo all’interno del Paese, evitando l’esportazione verso Africa e Asia.
Dichiara Perrotta: ”La definizione di Epr da parte dell’Unione Europea deve essere allineata per tutti i paesi e il recepimento deve avvenire per tutti allo stesso tempo. Ugualmente, lo sviluppo della ricerca tecnologica sarà fondamentale, continua, i capi sono composti da più materiali, questo è negativo per il riciclo, ma la ricerca deve riuscire a dividere queste componenti. Qui però, deve entrare in gioco anche l’Europa, spingendo verso l’ecodesign, perché le fibre sintetiche aumentano, la qualità sta scadendo e occorre una nuova visione di economia circolare”.
Sullo sviluppo impiantistico, tiene a ribadire che non si debba solamente pensare agli inceneritori, ma ad esempio al riciclo chimico, che sta dando risultati importanti.
Conclude: “Non buttiamo via ciò che già si ha di buono nel settore, anche perché non partiamo da zero. Attenzione ad end of waste nel pre e post consumo, che sono due cose diverse a livello normativo. Dobbiamo monitorare bene il contesto europeo e fare in modo che le regole siano chiare, semplici e non contraddittorie tra loro, perché le dobbiamo recepire: in questo modo potremo fare un buon lavoro”.
Anche Luca Mariotto di Utilitalia concorda sul fatto che vada coordinata una direttiva sull’ecodesign e un efficace sistema di Epr, per evitare che il costo si riversi sul consumatore finale. Indubbio il fatto che le regole che l’Unione darà in materia di end of waste debbano essere comuni. Ovviamente Utilitalia si rende disponibile ad interloquire con tutte le parti coinvolte sul tema.
La Federazione ha svolto un’indagine con la finalità di intercettare le opinioni degli associati rispetto all’impatto dell’obbligo della raccolta differenziata dei rifiuti tessili e così capire le dinamiche nei vari contesti territoriali e quali scenari gli associati si figurino nel breve e lungo termine. Si tratta di aziende di matrice pubblica molto presenti al centro e al nord, meno al sud, comunque tutte realtà mature dal punto di vista della gestione.
Nella raccolta del tessile è presente in quasi tutti i casi il servizio degli affidatari, che però è dedicato solo agli indumenti usati, non ad altri rifiuti tessili. Negli ultimi anni, si è registrata una riduzione della qualità dei tessili raccolti e del valore, anche significativo, del materiale. Per di più, vengono riscontrate molte forme di concorrenza più o meno abusiva, finalizzata ad intercettare la frazione più nobile del flusso della raccolta. Altro dato interessante, solo nel 50% dei casi questa è anche associata ad una attività di comunicazione esplicita sulle sue finalità e modalità, anche rispetto alle ricadute sociali che genera, probabilmente su questo aspetto incidono le limitate risorse economiche.
In merito ai possibili effetti della raccolta obbligatoria dei rifiuti tessili nel prossimo futuro, il 70% delle imprese ha stimato come necessaria una modifica nell’organizzazione del servizio, con l’inevitabile impatto che ciò avrà dal punto di vista delle competenze e sull’estensione della raccolta a tutti i comuni, sarà ridotto invece sul contratto di servizio. Ma chi vorrà proporsi nelle gare, dovrà ripensare in senso industriale i propri servizi, perché sarà una filiera industriale a tutti gli effetti, non più solo una raccolta volontaria e benefica come qualche decennio fa.
“L’importanza sociale non deve essere in contrasto con l’industrializzazione e la professionalità del settore, dichiara Mariotto, in aggiunta, gran parte dei nostri associati sono convinti che ci sarà un ulteriore peggioramento del materiale e un impatto negativo sulla capacità impiantistica locale nel riuscire a far fronte all’incremento di flussi”.
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