La moda ha seguito fino a poco tempo fa un modello produttivo lineare, innescando tutta una serie di problemi dal punto di vista della sostenibilità ambientale, economica e sociale. Attualmente invece, in seguito anche alle richieste di consumatori sempre più consapevoli ed esigenti, il nuovo modello produttivo che si sta affermando è sempre più circolare.
Un capo di abbigliamento vive diverse fasi: si passa dal design, alla selezione dei materiali, alla manifattura fino ad arrivare alla distribuzione e vendita al consumatore finale. Ma, per quanto riguarda la dismissione del capo a fine vita ci sono diverse opzioni.
La differenza tra downcycling recycling e upcycling
Una delle opzioni rispetto al conferimento in discarica è il downcycling, che ritarda questa fase, attraverso il riciclo e la trasformazione in altri materiali o prodotti di minore qualità e valore. In questa fase, i passaggi della trasformazione sono più brevi.
Rimane sempre valida l’opzione di donare i propri capi, come quando si tramandavano tra fratelli, oppure si possono vendere ai mercati o nelle piattaforme dell’usato, in questo modo gli si conferisce una seconda vita.
Il recycling invece, si riferisce alla progettazione e realizzazione di un prodotto usando materiali che provengono da un processo di riciclo, i capi mantengono lo stesso valore e vengono riutilizzati per lo stesso scopo per cui sono stati creati. L’oggetto dismesso viene trasformato, riportando indietro il materiale alle sue proprietà originarie, facendolo dunque diventare una materia prima per creare qualcosa di nuovo. La difficoltà in questo caso sta nel riciclare gli scarti di produzione, perché spesso i tessuti che compongono il capo sono molto diversi tra loro.
Upcycling: come uno scarto può diventare un oggetto di valore
Si parla invece di upcycling, termine coniato per la prima volta nel 1994 dall’ingegnere tedesco Reiner Pilz e sdoganato ufficialmente nel 1997 nell’omonimo libro dell’imprenditore belga Gunter Pauli, quando un prodotto viene trasformato in un altro prodotto di qualità e valore uguale o superiore rispetto al prodotto iniziale. Con questo termine, si indica la trasformazione di un rifiuto in un nuovo oggetto di moda grazie alla creatività.
Il fashion designer riadatta vecchi capi o materiali di scarto rendendoli qualcosa di più prezioso. Quando si parla di upcycling non si parla di un semplice riuso del capo, ma della sua riqualificazione attraverso il riciclo creativo. I materiali o capi invenduti vengono reinterpretati creando pezzi spesso unici, con capi che vengono smontati e riassemblati. E’ una produzione più accurata e l’unicità è data da quell’unico pezzo che si riesce a trovare e da cui nascerà un oggetto del tutto nuovo e di valore; è esattamente l’opposto della produzione di massa. Chi fa upcycling, oltre che di creatività deve essere corredato di una grande conoscenza dei materiali.
Al contrario, il fast fashion ha contribuito enormemente al fenomeno dei deadstock, cioè grandi quantità di tessuti e capi invenduti, risultato di un modello di business scriteriato: la sovrapproduzione. Ora poi, con la pandemia, l’invenduto nei magazzini è lievitato. La sovrapproduzione è uno di quei problemi che potrebbe essere risolto alla radice, se solo si smettesse di produrre enormi quantità di vestiti, grazie a delle previsioni che si avvicinano il più possibile alla domanda reale. Secondo la fondazione Ellen MacArthur, si può evitare di produrre rifiuti in ogni fase della produzione, grazie a delle previsioni corrette dei piani di produzione e approvvigionamento dei tessuti. Nel prossimo futuro, le aziende della moda devono ripensare e ridisegnare il proprio modello di business, orientandosi verso una produzione limitata e sostenibile.
L’upcycling è un’ottima soluzione per gestire questa sovrapproduzione e gli stock di magazzino invenduti, ma esistono anche delle aziende che aiutano a farlo, soprattutto quando si tratta di grossi volumi.
Ad esempio l’azienda Parker Lane Group nel Regno Unito, che aiuta i retailers a gestire l’eccesso di stock, attraverso un algoritmo che determina la soluzione ottimale per l’azienda, rimettendo in commercio i capi in altri mercati oppure riciclandoli.
Per agevolare i designer dell’upcycling alla ricerca di tessuti, ci sono delle realtà come la svedese Recotex, piattaforma che fornisce tessuti in eccedenza di alta qualità ai brand, impedendogli di fare ordini per la produzione di nuovi tessuti se questi possono essere già disponibili. Il portale americano Queen of raw, che gestisce online l’acquisto e la vendita di tessuto inutilizzato dalle aziende, riporta che, in un solo anno è cresciuta del 110% la quantità di stoffe inutilizzata. Il portale conta all’attivo 100.000 utenti sia del lusso che del fast fashion.
Per dare poi avvio ad un circolo virtuoso anche in Italia, sarebbe bene avere una legge antispreco come quella francese, che dal 2022 vieterà ai brand di moda di distruggere i prodotti invenduti (per un valore annuo di 650 milioni di euro, secondo il Ministero dell’Ambiente francese) obbligando i produttori, gli importatori e i distributori di nuovi prodotti a riutilizzarli, donandoli a società socialmente responsabili o dando loro una seconda vita.
Alcuni fashion designer dell’upcycling
Ecco alcuni designer innovativi che hanno deciso di fare dell’upcycling la propria bandiera, sia con il proprio brand che attraverso le collaborazioni con quelli più noti.
Uptitude, una start up innovativa fondata da Ermanno Zanella e Filippo Irdi che produce occhiali da sole da tavole da snowboard e da sci.
Christopher Reaburn da dieci anni lavora sull’upcycling con delle creazioni che nascono da materiali di recupero come la stoffa per paracadute, collabora con altri brand molto famosi aiutandoli in questa transizione.
Linda and Adam Friberg duo svedese fondatore del brand Avavav Firenze, lavorano con piccole quantità di deadstock di scarto delle aziende del lusso.
Duran Lantinck, designer londinese che lavora con prestigiosi rivenditori e ha fatto una collezione con dei jeans Lee ripensati in modo fantasioso.
La stilista portoghese Joana Duarte, con il suo brand di abbigliamento upcycled Béhen, trasforma in pregiati capi antiche tovaglie e lenzuola ricamate.
Il progetto Noloom, di Caterina Fumagalli e Adriana Fortunato che permette di recuperare tessuti inutilizzati come scampoli e cimose per tramutarle in opere di art design o prodotti di home couture.
Rafael Kouto giovane stilista svizzero che ha già collaborato con brand famosi, si approvvigiona di rifiuti tessili e deadstock da un centro di riciclaggio, dove arrivano da tutta la Svizzera, i capi raccolti che vengono anche esportati o venduti come second- hand.
Iryna Kucher con il progetto di rammendo creativo mend.it che si materializza sotto forma di un kit comprendente gli strumenti di rammendo stampabili in 3D.
Denise Bonapace e il progetto Abitario, i cui capi non hanno un’etichetta, ma un vero e proprio passaporto che informa su provenienza, lavorazione e progetto, lasciando anche spazio per note future.
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