La produzione dell’amatissimo denim (o tessuto di jeans), non è sostenibile a causa dell’elevato costo di produzione per l’ambiente, dovuto al massiccio impiego di sostanze chimiche e acqua. Gli elementi che hanno un maggiore impatto sono il trattamento del cotone e i prodotti chimici utilizzati per la sua colorazione, che necessita di un ingente consumo d’acqua ed ha un impatto negativo sul suolo.
Per produrre un singolo paio di jeans, è necessario impiegare 3.800 litri d’acqua, 12 mq di terreno e 18,3 kWh di energia elettrica, a fronte di una emissione di 33,4 kg di CO2 durante l’intero ciclo di vita del prodotto. Tutto questo va moltiplicato per il quantitativo immane prodotto nel mondo ogni anno, ovvero 3 miliardi e mezzo di paia di jeans.
Per raggiungere la sua colorazione, un jeans viene tinto dalle tre alle nove volte con l’indaco, un colorante sintetico molto dannoso, utilizzato insieme ai metalli pesanti che lo dissolvono. Ci sono poi dei trattamenti altamente nocivi per i lavoratori, come la sabbiatura, una tecnica di sbiancamento del denim che causa la silicosi, bandita solo a parole, dato che nelle fabbriche del sud est asiatico e non solo, su richiesta del committente possa essere ancora praticata.
Elevato anche il costo sociale dello sfruttamento di manodopera sottopagata e minorile, per l’Impact Institute, i jeans prodotti in India e in Bangladesh hanno un costo reale di 73 euro mentre al dettaglio ne costano 40.
Cotone riciclato, la sfida del prossimo futuro
Il denim esaurisce il 35% della produzione mondiale di cotone con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di impiego di pesticidi e consumo di acqua. Per questo è sempre più impellente iniziare a produrre un denim più sostenibile.
A questo proposito, la consapevolezza dei brand aumenta, infatti quaranta tra i maggiori produttori al mondo stanno utilizzando per le proprie produzioni cotoni organici certificati Ocs (Organic Content Standard) o Gots (Global Cotton Textile Standard), oppure il cotone riciclato Grs (Global Recycled Standard) o Rcs (Recycled Claim Standard).
Le coltivazioni più sostenibili sono sicuramente una delle vie da percorrere, Textile Exchange (global no profit) spera che entro il 2025, il 50% del cotone mondiale venga convertito in metodi di coltivazione più sostenibili, attività che attualmente pare coinvolgere solo il 22% del cotone coltivato a livello mondiale.
La Ellen Macarthur Foundation stima che meno dell’1% di tutto l’abbigliamento prodotto venga riciclato, pertanto il riciclo del cotone avrebbe un ruolo tutt’altro che marginale. Con l’intento di rendere l’industria del denim più pulita, si è costituita l’Alleanza per il denim responsabile che riunisce i rappresentanti dell’intera catena del valore del denim, in modo che alleandosi si possano trovare soluzioni più efficaci. Ne fanno parte Evrnu che provvede alla rigenerazione dei cascami di cotone, per creare fibre rinnovabili per abbigliamento e non solo. Genera i rifiuti degli indumenti di cotone e li converte in polpa espellendoli come una nuova fibra incontaminata. La svedese Renewcell che con la sua tecnologia trasforma un tessuto di cellulosa in polpa riciclata di alta qualità e il processo non richiede sostanze chimiche. Il cotone riciclato dalla spagnola Recover mantiene il colore originario delle materie prime e non viene applicato alcun colorante alla fibra di cotone, così si ha un notevole risparmio di acqua, energia, sostanze chimiche e CO2.
Biodegradabilità: nuova frontiera della moda sostenibile
Il maggior problema della fashion industry è sicuramente la sovrapproduzione annuale di indumenti, che tocca i 160 miliardi di capi, con una popolazione mondiale di 7.7 miliardi di abitanti, di cui appena 1 miliardo e mezzo circa ha capacità di spesa.
Altro problema, i capi invenduti o mai indossati vengono bruciati o gettati in discarica e il riciclo, come suddetto, ammonta ad appena l’1% dei capi. Comunque anche se si ricicla, non è un circolo infinito, prima o poi il capo va eliminato.
La soluzione è sicuramente fare ricerca e sviluppo per trovare nuove vie percorribili e sostenibili, come nel caso del primo jeans biodegradabile di caucciù, che una volta terminato il suo ciclo di vita, si distrugge in maniera naturale senza avere un impatto negativo sull’ambiente. Anzi può essere impiegato come fertilizzante per far crescere la fibra e produrre il prossimo jeans. Il jeans biodegradabile tutto made in Italy dell’azienda Candiani è fatto con un filato stretch, una trama elastica, non di origine sintetica derivato dal petrolio, ma appunto di origine vegetale. Il filato non rilascia elementi tossici nel terreno una volta decomposto e questo lo rende al 100% biodegradabile ed ecocompatibile. Il progetto Coreva è quindi una soluzione che permette una effettiva circolarità del jeans.
La strategia vincente per produrre denim sostenibile e differenziarsi sul mercato, sembra proprio essere quella di competere sull’innovazione, investendo in ricerca e sviluppo. Bisogna produrre meno e meglio, in modo che duri di più, questo chiedono i consumatori sempre più consapevoli.
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