L’Unione europea dell’energia è una delle 10 priorità della Commissione di Jean-Claude Juncker, e il progetto ha ricevuto il consenso dei capi di Stato e di governo durante il vertice Ue del 19 e 20 marzo, a Bruxelles, sulla base di tre diverse comunicazioni strategiche presentate dall’Esecutivo comunitario il 25 febbraio scorso. Dei tre documenti, solo il primo riguarda il progetto complessivo, le sue motivazioni e i suoi obiettivi, mentre gli altri due affrontano più specificamente la piena integrazione dei mercati elettrici, che hanno bisogno di interconnessioni fisiche oggi mancanti e di codici e meccanismi di regolazione che rendano compatibili le reti, e, infine, la questione degli obiettivi climatici (taglio delle emissioni di gas-serra, rinnovabili ed efficienza energetica) già fissati in linea di principio per il 2030, ma non ancora articolati in normative, che saranno adottate solo dopo la conferenza Onu sul clima di Parigi, a dicembre.
Si tratta ancora, comunque, di proposte di piani d’azione (sono 15 in tutto), indicazioni di processo, propositi e obiettivi (una sorta di “brain storming”, insomma), e non di norme articolate, che saranno varate più tardi.
L’idea di fondo dell’unificazione del mercato interno dell’energia è che sia sempre possibile e agevole trasportare l’elettricità o il gas dal luogo in cui sono prodotti o comunque disponibili a un qualunque altro luogo nell’Ue in cui la domanda non sia pienamente soddisfatta delle capacità locali, e che si possa in tal modo anche rafforzare la sicurezza energetica, riducendo progressivamente e sostanzialmente la dipendenza da paesi terzi, spesso poco affidabili e dipendenti comunque dagli sviluppi geopolitici (basta ricordare le ricorrenti crisi del gas con la Russia, o i problemi dovuti al conflitto fra le fazioni in Libia). Sviluppare in modo ottimale la produzione autoctona, le interconnessioni e l’integrazione dei mercati, la differenziazione delle risorse significa poi anche poter conseguire più facilmente i target climatici, e va sottolineato che uno degli obiettivi chiaramente indicati da Juncker è quello di fare dell’Unione europea dell’energia “il primo produttore al mondo nel settore delle rinnovabili”.
La sicurezza energetica, nelle intenzioni della Commissione e soprattutto del presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, dovrebbe essere rafforzata anche mettendo fine al sistema dei contratti negoziati singolarmente da ciascuno Stato membro con i paesi terzi nel settore del gas, e dalla loro aggregazione (che sarebbe comunque volontaria) in un nuovo e più forte soggetto negoziale europeo, con l’imposizione di norme Ue uniformi e più trasparenti per i contratti stessi. Una visione, questa, condivisa dai paesi dell’Europa centro-orientale, insofferenti delle continue tensioni con la Russia, ma non da altri Stati membri (Italia compresa), in cui hanno sede le grandi “utilities” che invocano la libertà di mercato e preferiscono mantenere le mani libere, fiduciosi di strappare condizioni più favorevoli ai fornitori dei paesi terzi. Proprio questo è stato, in realtà, il tema più controverso del Consiglio europeo di marzo, come ha riconosciuto lo stesso Tusk.
Il premier olandese Mark Rutte, ad esempio, dopo il vertice di marzo ha semplicemente negato che si possa dare alla Commissione europea il potere di approvare preventivamente i contratti energetici negoziati con i fornitori extracomunitari, sostenendo che il “coordinamento” e la “cooperazione” con la Commissione sono sufficienti a garantire che gli accordi siano in linea con il diritto comunitario.
Non è chiaro, dai documenti oggi sul tavolo, quale sia la data in cui l’Unione europea dell’energia potrà dirsi compiuta (e con quanti dei 15 piani d’azione realizzati), anche se c’è l’impegno politico della Commissione Juncker a completare il progetto entro la fine del suo mandato, nel 2019. Da questo punto di vista, il progetto appare, almeno per ora, più debole e dà meno certezze rispetto al cantiere dell’unificazione del mercato interno di Jacques Delors, che riuscì a mobilitare e dinamizzare le forze economiche e politiche della Comunità europea nella seconda metà degli anni ’80 con un processo a tappe forzate verso l’obiettivo del 1993.
Nel confronto col precedente di Delors c’è poi oggi un altro fattore mancante: il consenso di tutti gli Stati membri, Gran Bretagna compresa, alla cessione di potere alla Commissione europea nel campo della legislazione per il mercato interno, che si espresse con l’Atto unico europeo, la prima riforma del meccanismo decisionale comunitario dai tempi del Trattato di Roma del 1957. Basta ricordare la situazione di profonda crisi politica e sfiducia da parte delle opinioni pubbliche in cui si trovano oggi le istituzioni dell’Ue a causa della disastrosa gestione della crisi dell’Eurozona, per capire quanto possa essere difficile per Bruxelles reclamare più poteri, tenendo conto che, oltretutto, la Commissione non ha intenzione di imbarcarsi in una richiesta di modifica degli attuali trattati
La politica energetica, secondo il Trattato Ue di Lisbona, è una politica “concorrente”, cioè a competenza mista (nazionale e comunitaria), come, ad esempio, per il mercato interno, l’agricoltura e pesca, l’ambiente: tutti settori, questi ultimi, in cui l’Unione agisce attraverso “politiche comuni”. In tutti questi campi, gli Stati membri possono esercitare la propria competenza solo nella misura in cui l’Ue non ha ancora deciso di esercitare la propria. Tuttavia, a parte l’ambito climatico e il settore delle rinnovabili (dove sono stati fissati obiettivi vincolanti e politiche comuni già a partire dal Protocollo di Kyoto, e poi con il pacchetto clima-energia per il 2020), la politica energetica dell’Ue resta in gran parte gelosamente in mano ai governi nazionali. In realtà, non sarebbe azzardato stabilire una similitudine con un’altra politica che secondo il Trattato Ue dovrebbe essere “concorrente”: la politica dell’immigrazione. In entrambi i casi, l’incapacità – nonostante i tentativi fatti – di “comunitarizzare” queste politiche è stata dovuta soprattutto a una clausola di competenza esclusiva degli Stati, anche se limitata a un ambito circoscritto: da una parte, riguardo alle “quote” annuali di immigrati legali da accettare in ogni paese membro, dall’altra per quanto attiene al cosiddetto “energy mix”, ovvero la scelta che ogni paese è libero di fare su quali fonti energetiche utilizzare per la propria economia, e in che proporzione relativa.
La questione, dunque, è se questa Commissione europea, riuscirà nel suo intento di creare un vero e proprio mercato unico dell’energia a trattati costanti. E se sarà sufficiente il rafforzamento previsto delle autorità europee (oggi poco incisive) del settore: Entso-E ed Ensto-G (le agenzie degli operatori delle reti di trasmissione dell’eletricità e del gas), e Acer (l’agenzia per la cooperazione dei regolatori nazionali dell’energia). Senza uno strumento istituzionale di rafforzamento del metodo comunitario (e quindi del potere della Commissione), si rischia di cadere nel velleitarismo del cosiddetto metodo del “coordinamento aperto” fra Stati e istituzioni europee, proprio quello che sembra invocare l’olandese Rutte. E qui basterebbe ricordare la “Strategia di Lisbona”, basata proprio sul “coordinamento aperto”, che nel 2000 stabilì una serie di obiettivi e di azioni per rendere l’Ue “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva al mondo entro il 2010″ (sic), e che è poi fallita miseramente.
C’è, tuttavia, un elemento importante che finora non è emerso, e che invece potrebbe cambiare gli equilibiri a favore della Commissione. L’Esecutivo comunitario mira a ritardare la presentazione delle nuove proposte legislative, sia per il mercato unico dell’energia sia per le politiche climatiche (in particolare la riforma del sistema Ets di compravendita dei diritti di emissione e le nuove norme sull’efficienza energetica), in modo da approvarle con il nuovo sistema di voto in Consiglio Ue, deciso proprio dal Trattato di Lisbona, che entrerà pienamente in vigore nel 2017. Il nuovo sistema non prevede più che le decisioni siano prese a maggioranza qualificata in base al voto ponderato (con un peso diverso assegnato a ciascun paese, e grossomodo proprozionato alla sua popolazione), ma introdurrà la “doppia maggioranza”: il 55% degli Stati membri e il 55% della popolazione. Questo permetterà, in sostanza, di passare oltre la prevedibile opposizione di una parte dei paesi membri – che oggi potrebbero facilmente costituire una “minoranza di blocco” – e di prendere le decisioni legislative confidando soprattutto nell’accordo dei grandi Stati membri. Non è politicamente corretto dirlo, ma è proprio su questo cambiamento radicale del meccanismo decisionale comunitario che potrebbero essere fondate le speranze di successo dell’Unione europea dell’Energia.
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