Si può produrre di più con meno impatto ambientale. Un tema che in ottica di transizione energetica investe tutti i settori produttivi tra cui la filiera alimentare.
Uno scenario che apre diverse prospettive professionali e occupazionali di alto livello. Su queste tematiche si sono confrontati diversi esperti dell’università di Bologna, di Milano e Slow food Italia nel corso del webinair “Agricoltura e alimentazione verso la sostenibilità” organizzato dal master Ridef2.0, in collaborazione con Canale energia ed Enersem, nel contesto del Festival dello sviluppo sostenibile che si è tenuto oggi 5 ottobre.
Guardando alla filiera, vediamo come l’intero ciclo di produzione del cibo stia diventando sempre più tecnologico. Un’impresa che contribuisce a utilizzare in maniera puntuale le risorse, come sottolinea la professoressa Francesca Ventura agrometeorologa del dipartimento di Scienze e tecnologie agro-alimentari dell’università di Bologna. Anzi “la stessa agricoltura può fare della mitigazione, sottraendo la CO2 dall’atmosfera e trasformandola in biomassa vegetale” ci rassicura la professoressa. “Con l’agricoltura di precisione, ad esempio, stiamo studiano come portare l’acqua con la quantità necessaria solo dove serve. Lo stiamo facendo già lavorando nella filiera”, coinvolgendo i produttori sia agricoli che di macchine irrigue.
Centrale il trasferimento di know how tecnologico nella filiera e a livello autorizzativo
Tecnologia e ricerca possono molto anche rispetto l’impatto ambientale degli allevamenti. Alcuni studi dimostrano come variando determinate tipologie di alimentazione la produzione del metano può essere limitata. “Ma bisogna agire anche sulla qualità di vita dell’animale, sullo stoccaggio delle deiezioni e il trattamento delle stesse”. Si tratta di nuove ricerche per cui è centrale il trasferimento di know how tecnologico nella filiera e a livello autorizzativo.
Per ridurre l’impatto ambientale è necessario poter misurare l’effettivo riscontro nell’ambiente. Per farlo si possono seguire degli standard qualitativi ambientali. Ma affinché sia efficace, è importante che ci sia un’unità di misura e valutazione e un metodo condiviso e standard. “Ad oggi ce ne sono oltre 400” di strumenti di valutazione, spiega Proserpio analista Lca del dipartimento di Design del Polimi. “Su questa base con il progetto Life, stiamo realizzando un software che segue i principi di una Pef (Product enviromental footprint nasce sulla base del Life cycle assessment secondo gli standard Iso 14040-14044 ndr.) con cui introdurre delle tecnologie comuni per verificare le misure dell’ impatto ambientale e una sua efficace comunicazione”.
Etichettature e misure che palesano il grande potere del consumatore nell’effettuare una scelta consapevole. “È importante ridare valore etico, di salute personale e ambientale al cibo che consumiamo” e per farlo è necessario essere informati il più possibile sul valore della biodiversità, evidenzia Berlendis di Slow food Italia. “Un valore che non è sempre evidente nello scontrino della spesa, i cui costi che la comunità deve sostenere, non si vedono al momento, ma arrivano in un secondo tempo”. Una tutela della biodiversità che si sta riducendo sempre di più anche per esigenze di produzione: “Stiamo facendo un ridottissimo uso di specie e coltivazioni (…) Usiamo a un pugno di varietà in mano a pochi. Si tratta di un restringimento delle libertà personali”. Una grande opportunità la dà l’educazione scolastica con l’inserimento di orti nelle scuole o nelle città e l’insegnamento della stagionalità dei prodotti.
È la cultura e la formazione specialistica che può permettere di riuscire a fare un salto di qualità verso una transizione energetica e ambientale sostenibile, in cui la società può migliorare la propria qualità della vita senza andare a discapito dell’ambiente che la ospita. Per questo la formazione di nuove professionalità tecnologiche e sostenibili è strategica, come ricordano i vertici del Master reef 2.0 presenti alla giornata dei lavori: il direttore del master Lorenzo Pagliano e il vicedirettore Paolo Silva.
Sopratutto le tecnologie in parte ci sono già e i saperi aumentano. Quello di cui c’è estrema urgenza è una professionalità consapevole che si diffonda lungo tutta la filiera. E il bando lanciato oggi da Confagricoltura per premiare l’innovazione tecnologica del settore ci da l’idea che il comparto dell’alimentare sia in ascolto.
L’impatto del cambiamento climatico visto dalla filiera alimentare
La concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera del pianeta è cambiata negli ultimi 50 anni passando da circa 320 parti per milione in atmosfera ai 412 di oggi. “Un valore che sembra piccolo, ma che intrappola calore nell’atmosfera e cattura energia, favorendo gli eventi estremi (…)” spiega la prof. Francesca Ventura dell’università di Bologna, nella impennata di gas serra negli ultimi anni “Ora siamo in una fase transitoria e instabile”.
L’allevamento emette circa il 6% di gas serra presenti in atmosfera, il cibo nella sua complessità circa il 25%.
Temperature e precipitazioni sono i fattori del cambiamento climatico che più impattano sull’agricoltura, poiché cambia la variabilità delle temperature. “Ma le piante sanno da molto prima di noi che il clima sta cambiando” spiega la prof. del dipartimento di Scienze e tecnologie agro-alimentari dell’università. Gli effetti sulle piante ad esempio causano uno spostamento verso nord degli areali di coltivazione. Cambiano le epoche di semina e la lunghezza del ciclo culturale. “La cosa più grave è la mancanza di sincronizzazione con il ciclo degli insetti. Pensiamo ai problemi di salvaguardia delle api”. Ma non tutto è perduto, ci sollecita la prof. basta rendersene conto e comportarsi di conseguenza.
L’esempio. Conoscere l’impatto ambientale della produzione di formaggio tra Italia e Francia
Un software per calcolare e ridurre l’impatto ambientale dei formaggi a pasta dura europei, partendo da un’analisi di Product enviromental footprint: questo l’obiettivo del progetto Life che ha coinvolto alcuni produttori di formaggi tra cui l’italiana Grana Padano. L’analisi dell’impatto ambientale segue l’intera filiera che va dal campo alla stalla, alla produzione, arrivando all’imballaggio fino ai consumi finali. “L’analisi considera anche l’energia impiegata dal frigo per la conservazione del prodotto. L’energia della lavastoviglie per la pulizia delle posate usate nel mangiare il formaggio, fino al packaging” sottolinea Carlo Proserpio analista Lca del dipartimento di Design del Polimi.
L’unità di riferimento di valutazione dell’impatto del formaggio è la massa secca. Quindi cambia la quantità di materiale per la valutazione di questa unità di misura (vedi immagine “unità funzionale”) in base al formaggio oggetto di indagine.
Da questo studio sta prendendo il via anche un sistema certificativo volontario promosso dal ministero dell’Ambiente “Made green in Italy” accessibile a prodotti con pari o superiori benchmark di riferimento.
È soprattutto il calore l’energia più “sprecata” nella produzione analizzata. “La dispersione termica potrebbe essere facilmente recuperata” sul piano tecnologico, come spiega Matteo Muscherà ingegnere e ricercatore Enersem, ma resta difficile il trasferimento ai produttori. “Spiegare che il livello innovativo dell’impianto non va a intaccare la qualità del prodotto genera ancora diffidenze”. Per cui è necessario superare il “timore” di soverchiare la “tradizione” a spesa della qualità. In questo, progetti europei come Life permettono di misurare l’efficacia di determinate innovazioni test svolgendo un importante ruolo di apripista. Importante e strategica la fase di comunicazione.
L’etichetta narrante e il patto con la filiera
“Riteniamo che nei sistemi di etichettatura dei prodotti vadano citate insieme ai parametri di rito anche alcune specifiche come il territorio di provenienza del formaggio da chi è stato munto, cosa hanno mangiato e che tipo di lavorazione e conservazione ha subito” redarguisce Lorenzo Berlendis gastronomo del consiglio nazionale di Slow food Italia. “Un elemento fondamentale per arrivare a scelte consapevoli. C’è una grossa riflessione da fare. Serve fare un p(i)atto con la filiera. Quello che mettiamo nel piatto tutti i giorni può fare davvero la differenza”. La distribuzione è uno dei nodi derimenti di tutta la questione, ma possiamo trarre più convinzione da un elemento concreto, come ci ricorda Berlendis: “A seguito del lock-down dovremmo riflettere seriamente su quanto siamo riusciti a cambiare del nostro stile di vita”. Sicuramente un punto fermo da cui ripartire.
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